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Stupro e omosessualità: sull’uso scorretto delle parole da parte di certe femministe

Carl Gustav Jung

Le parole sono importanti. Il mio psicologo un giorno mi ha detto che il vero amore è quello “eterosessuale”. Mi fece il segno con le dita, per indicare le virgolette e mi spiegò, subito dopo, che nella lettura di Jung quel termine non ha la valenza che gli si dà nella lingua italiana. «Capisco che sei un attivista e ti potresti irrigidire» fu la sua premessa «ma ti prego di ascoltarmi». E mi spiegò che per “eterosessuale” si intendeva la capacità di vedere l’altro (etero-) da sé nella gestione del desiderio (-sessuale).

L’importanza del contesto linguistico

Il contesto era il seguente: a volte, quando ci innamoriamo, tendiamo a rispecchiare noi stessi nell’altro e questo è un errore. Perché non lo vediamo più – non riconosciamo, cioè, la sua soggettività – e l’amore diventa narcisismo. L’altro va visto, invece, nella sua unicità e accolto per quello che è il suo “essere”. Se vi riusciamo, l’amore che possiamo sperimentare può essere autentico. Ovviamente, mi disse sempre il mio psicologo, ciò vale sia per chi si innamora di persone di sesso diverso, sia per chi si innamora di persone dello stesso sesso. Le stesse parole, insomma, possono avere accezioni diverse, a seconda di chi le usa e del fine che si vuole ottenere.

Di alcune parole usate con significati altri

Mario Mieli

Anche in Elementi di critica omosessuale (Feltrinelli, 2002) abbiamo usi “altri” di parole d’uso comune, politicamente e socialmente connotate. Pensiamo ai termini “transessuale” e “pedofilo”. Nel primo caso, Mario Mieli non vuole indicare persone che effettuano una transizione, ma quella «pluralità delle tendenze dell’Eros» (p. 17 e ss.) che c’è in noi. Nel secondo, invece, non si utilizza il termine nell’accezione contemporanea, ovvero quello di adulti che abusano del corpo – e quindi dell’innocenza – di bambini. In un discorso in cui si teorizza la libertà totale dell’individuo (p. 62), partendo dal presupposto che anche i bambini hanno una loro sessualità, in una utopistica società in cui il soggetto è libero nella gestione del desiderio, deve esserlo anche di sperimentare tutte le forme di sessualità. Pensiero che noi possiamo non condividere o rigettare, ma che non prevede l’abuso sessuale.

La lingua tra denotazione e connotazione

Nella lingua le parole obbediscono a una regola per cui esse hanno un significato principale (livello denotativo) a cui si può aggiungerne uno ulteriore, che le connota a seconda dell’uso che se ne fa, del contesto, del sottocodice di riferimento (livello connotativo). È il caso della parola “eterosessuale” così come usata nel discorso del mio psicologo. Si prende un termine che ha un significato di partenza – persona che è attratta da altre del sesso opposto – e lo si arricchisce di significati che hanno un valore specifico in un ambito preciso. Al di fuori di quell’ambito, usare indiscriminatamente certi termini è fuorviante, perché li si decontestualizza. E basta aver studiato il modello di Jakobson per capire che se elimini – tra gli altri – il contesto non c’è comunicazione, bensì il suo esatto contrario.

L’uso scorretto della parola “omosessuale”

Il commento incriminato

Scrivo tutto questo perché una nota femminista ha usato male la parola “omosessuale” associandola allo stupro. Poi ha corretto il tiro, dicendo che ne utilizzava il significato così come espresso in Carole Pateman, nel libro Il contratto sessuale. Non ho letto il libro in questione, per cui sospendo il giudizio su cosa direbbe (il condizionale è d’obbligo) la studiosa in merito e (appunto) in quale contesto. Faccio tuttavia notare che l’origine del termine, come ci ricorda Paolo Zanotti ne Il gay (Fazi, 2005), risale al 1869 e fu coniato dall’ungherese Károly Mária Kertbeny (p. 78), in riferimento a persone attratti da altre dello stesso sesso, così come oggi a centocinquant’anni di distanza. Usi ulteriori non possono essere così disinvolti, come quello che se ne è fatto.

Una leggerezza offensiva

Rifacendoci agli esempi appena esposti, se io scrivessi che l’unico amore è quello eterosessuale o che i gay sono pedofili, senza usare le dovute virgolette e senza definirne il contesto, verrei bollato (giustamente) come omofobo. Se dicessi invece che le persone omosessuali e transessuali sono la stessa identica cosa, di me si direbbe che non conosco la differenza tra orientamento sessuale e identità di genere. Nel primo caso, se più volte avessi fatto dichiarazioni poco benevole nei confronti dei gay, qualcuno potrebbe ravvisare un’eventuale malafede da parte mia. Occorrerebbe farlo presente a chi utilizza con una certa leggerezza le parole che riguardano la realtà Lgbt. Leggerezza che rischia di essere offensiva, nella sua gratuità.

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