Politica&diritti

Stefano Gabbana ha ragione a non dirsi gay, ma ha anche torto

Stefano Gabbana ha ragione. Non chiamatelo gay. Prima di capire perché, facciamo un passo indietro. La notizia è che il famoso stilista, insieme al suo socio Domenico Dolce, vestirà la nuova first lady Melania Trump, nonostante le posizioni del neopresidente sui diritti delle persone Lgbt. Su Instagram, tuttavia, un utente si ribella e commenta: «Triste quando a uno stilista gay non importa della repressione delle minoranze, quanti soldi vuoi ancora?». Arriva la replica, piccata: «Non mi chiamare gay per piacere!! Sono un uomo!!! Chi amo riguarda la mia vita privata!!!».

Stefano Gabbana

Gabbana ha ragione

Per cui, ritornando all’apertura dell’articolo: Gabbana ha ragione. Gay non è solo una categoria descrittiva del proprio orientamento, ma è anche una categoria politica che troppo spesso va sovrapposta (e confusa) con quella di omosessuale. Vero è che nell’uso comune è questa la valenza che via via assume il termine, ma così come non possiamo sovrapporre (con evidente impoverimento di significato) “femminista” con “donna”, allo stesso modo – forse – dovremmo prenderci maggiormente cura delle parole che hanno fatto la nostra storia e che segnano i confini di un’identità (politica, ricordiamolo sempre). Sempre che lo si voglia, va da sé.

Per cui, se Stefano Gabbana non vuole essere ricondotto a quella fenomenologia di persona (anche) omosessuale che ha coscienza di sé, considera la propria identità un valore aggiunto della ricchezza dell’essere e che è disposta a rivendicare i propri diritti, chi siamo noi per trasformarlo in ciò che non è e non può diventare? Per essere gay ci vuole coraggio, insomma. Non è il suo discorso, per altro, molto lontano da quelli di chi in questi anni turbolenti, dai DiCo in poi, ha prodotto frasi quali “non mi interessa che si tuteli la mia omosessualità, io voglio diritti, anche se minimi” e perle similari quando invece si faceva notare che certe proposte erano discriminatorie proprio sulla base dell’identità sessuale.

La stigmatizzazione, l’uso delle persone lgbt e la tolleranza

A tal proposito, un ulteriore discorso si dovrebbe aprire su quel potere che stigmatizza l’omosessualità, considerandola limite per l’accesso a una sfera di garanzie (in tutto o in parte), ma poi non ha problemi a “usare” le persone Lgbt quando utili al sistema. Succede mutatis mutandis con la macchietta mediatica, che aiuta a conferire patenti di tolleranza, succede con questo caso di esibizione del potere che legittima se stesso attraverso il ricorso al brand di grido (poco importa chi c’è dietro). Di fronte a questi fenomeni complessi e pervasivi sta a noi interrogarci per capire se non siamo parte integrante di questo sistema o elemento destrutturante (come dovrebbe essere ogni movimento Lgbt che si rispetti).

La foto pubblicata su Instagram con il commento dello stilista

Recuperare un’identità politica, magari smettendo di percepirsi come minoranza – che a ben vedere è il processo opposto in cui cade Gabbana, in quella che è una vera e propria amputazione di parte del suo essere, facendosi trattare da soggetto marginale del corpo sociale – dovrebbe dunque essere prioritario nella costruzione del linguaggio e della comunicazione che dobbiamo portare avanti. Oltre al fatto di smettere di comprare D&G, va da sé.

Gabbana ha torto

Detto questo, Stefano Gabbana ha pure torto. Perché con il suo “Don’t call me gay. I’m a man” mette in opposizione la sua appartenenza all’umanità con il suo essere (anche) omosessuale. E le due cose non si contraddicono, sebbene anche noi, forse, abbiamo peccato di appiattimento identitario a partire dai nostri momenti rivendicativi più forti: si pensi agli ultimi pride e alla necessità di anteporci come “umani” (forse cadendo nella trappola dell’excusatio non petita?).

Sarebbe il caso, infine, di interrogarsi a lungo sul valore squisitamente politico che le nostre vite hanno, ci piaccia o meno. Proprio perché è lungo quel percorso verso il diritto all’indifferenza, ancora ostacolato dal dovere all’invisibilità. Proprio perché ancora avere comportamenti sessuali ed affettivi reputati “fuori norma” ci descrive come una specie di terzo sesso di ottocentesca memoria, con conseguente legislazione ad hoc quando si parla di legiferare sulle nostre vite, invece di rimuovere gli ostacoli che complicano le nostre esistenze. Proprio perché c’è gente, col potenziale di fuoco di una visibilità mondiale, che si vergogna di accettare se stessa.

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