La vittoria di Chelsea Manning, la prima trans ad operarsi in un carcere statunitense

Chelsea Manning è diventata famosa per essere stata la whitleblower che ha dato vita a Wikileaks. Fu lei, quando nel 2009 era ancora arruolata nelle forse armate statunitensi, a passare su CD gigabyte e gigabyte di cablogrammi riservati, documenti che nessuno avrebbe mai dovuto conoscere e che poi, tramite l’orgaizzazione fondata da Julian Assange, diventarono di dominio pubblico facendo tremare interi stati, mettendo in dubbio rapporti diplomatici e gettando più di un’ombra sulle politiche estere degli Usa e, invece, accendendo una luce accecante sulle torture, le violazioni dei diritti civili, gli abusi perpetrati in operazioni legate alla guerra in Afghanistan e a quella in Iraq.

Ora, è di nuovo lei a balzare sulle pagine dei giornali, per una ragione del tutto differente.
Chelsea Manning sarà infatti la prima transgender a sottoporsi all’operazione per la riassegnazione del genere in un carcere statunitense. Perché, accusata di alto tradimento, Chelsea venne condannata dalla corte marziale a 35 anni di prigione. Ed è proprio in prigione che ha iniziato il suo percorso di transizione e la sua personale battaglia per cambiare sesso. Una decisione che le è valsa continui abusi e atti di bullismo, all’interno del carcere, non solo da parte degli altri detenuti. La terapia ormonale a lungo negata, le continue accuse di reati monori sono solo alcune delle difficoltà che ha dovuto affrontare, affiancata da un legale di Aclu, associazione statunitense che si batte per i diritti delle persone lgbt. Fino al tentativo di suicidio, lo scorso 5 luglio, per fortuna non riuscito. Incredibile, ma vero, è finita sotto inchiesta pure per aver tentato di togliersi la vita.

Fino a quando, lo scorso 9 settembre, ha iniziato lo sciopero della fame. “Oggi ho deciso che non sopporterò più il bullismo da questa prigione – scrisse quel giorno in un’accorata lettera -, né da nessuno del governo Usa. Non chiedo niente di più che la dignità e il rispetto, ma queste sono dovute a ogni essere umano. Senza il rispetto di questi standard minimi di dignità, farò un atto pacifico ma fermo”. Ieri, finalmente, la decisione dell’esercito di permetterle di seguire il percorso di transizione e anche di operarsi. “L’esercito ha fatto la scelta giusta – ha commentato -. Cioè, semplicemente, consentirmi di essere me stessa“.

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