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“Ti spedisco in convento”: il reality che stigmatizza l’autodeterminazione con la preghiera

Un nuovo reality show di cui non si sentiva la mancanza? Forse. Dopo le intromissioni fuori luogo nelle comunità Amish ecco Ti spedisco in convento, il programma che vede cinque ragazze dai 19 ai 22 anni convivere con altrettante suore oblate del (e nel) Convento Bambin Gesù di Sorrento.

La motivazione ufficiale, come svela il parlato sulla sigla iniziale è: dal momento che «molte ragazze seguono la cultura del bere, del sesso sfrenato, del narcisismo, del denaro come fonte di felicità e dei social come unica proiezione della realtà» potrebbe essere che «se affrontassero un percorso spirituale, riuscirebbero a vivere lontane dalle tentazioni?»

Due, le questioni.

La prima è l’ipocrita demonizzazione di un modello di vita che la società e la Tv stessa hanno creato e che sempre la società e la Tv si impegnano ogni giorno a rendere più desiderabile, la seconda è che mette sul piatto la religione cattolica finalizzata alla rieducazione di ragazze che vanno in discoteca, giocano alla playstation o fanno shopping (le protagoniste non pare facciano altro). Tra preghiere e messe, il messaggio è che la “retta via” (a questo accenna lo spot in radio) sia in qualche modo obbligatoria e raggiungibile attraverso il divieto di scollature e tacchi.

Da quanto ne so siamo in uno Stato laico

Uno strumento educativo, quello della ricerca di Dio, che andrebbe bene di certo se una ragazza oggi decidesse nel pieno della sua consapevolezza di prendere i voti ma in uno Stato laico come si presuppone sia l’Italia, quando è diventato educativo il segno della croce prima di mangiare la zuppa e, ancora, quando è stato deciso che è accettabile dire ad alta voce che denaro, tacchi e scollature sono il simbolo della perdizione? Almeno prima di ingaggiarle la produzione ha appurato che sono tutte e cinque cattoliche o siamo così oltre il rispetto degli altri Credo che imponiamo il segno della croce?

Le ragazze o almeno i personaggi sembrano, nell’economia della loro età, persone autodeterminate: sanno cosa vogliono per quanto lo sai a vent’anni e di sicuro cresceranno e cambieranno ancora cento, mille volte idea su vita privata e carriera, sul modo di vestire o di scegliere i loro compagni. Nessuna di loro è da rieducare, non sono ladre, alcoliste, non sono violente né pericolose per sé stesse o chi le circonda. Almeno non ad oggi, puntata Uno: non si può ancora sapere se gli episodi futuri saranno rincicciati con dettagli più pruriginosi. In ogni caso qui casca il fake: escludendo per un attimo dall’equazione l’intervento divino, non è realistico un reality che mira a rieducare persone che conducono esistenze talmente negli schemi da farti chiedere cosa stai guardando.

Maternità, obbedienza, preghiera

Le suore sono stupende, sono donne di una dolcezza indicibile che scalderebbero un cuore di ghiaccio solo con lo sguardo. Alcuni attimi del programma sono stati emotivamente forti (ottimo lavoro autori e autrici) e viene voglia di abbracciarle e andare a pranzo con loro. Ma sono suore, non possono e non devono educare giovani donne in Italia nel 2021.

Temo che se le giovani avessero avuto qualche anno (o qualche assemblea femminista) in più addosso avrebbero saputo cosa rispondere a una di loro quando ha affermato, sempre sulla Tv pubblica, che «ogni donna ha in sé la maternità», «i tuoi vestiti non vanno bene» o «non ti truccare». Ma siamo in Tv e tutte e dieci hanno sottoscritto accordi e copioni.

Però, quale messaggio si sta diffondendo? Quale corda si cerca di andare a solleticare? Perché se l’idea è di mettere insieme suore e giovani italiane per vedere l’effetto che fa ci si chiede come abbiano potuto, le suore, prestare il fianco. Se d’altro canto vogliamo sconvolgere le persone in casa, la reazione di mia nonna – profondamente credente, 90 anni compiuti – è stata: «Ma che scemenza mi stai facendo vedere?»

Volendo ipotizzare che almeno le suore in questione abbiano avuto una buona contropartita da tutto questo, ci si domanda per quale motivo accettino di farsi portavoce di un messaggio violento e discriminante come quello di appellare «pecora nera che Gesù sta cercando» una ragazza con la quale non avevano ancora mai parlato ma “colpevole” di avere una scollatura, non di essere capo di un clan di Cosa Nostra.

Stiamo ancora parlando di televisione? Be’ no

E qui non stiamo certo ancora parlando di Tv. Se il senso di tutto questo è voler riportare in voga determinati valori, ruoli e ideologie è un problema: perché solletichi nel pubblico la già pericolosa tendenza a stigmatizzare le donne che non rientrano nello schema imposto dai modelli oppressivi del patriarcato. Modelli questi che vanno solo decostruiti e anche prima dei vent’anni, se poi nel frattempo il pavimento impariamo a lavarlo tutti e tutte è un bene.

Non si vuole entrare nel merito della Chiesa e del suo ruolo nell’oppressione della donna nei secoli. Tuttavia, imporre a delle ragazze uno stile di vita di norma adottato e con grande sacrificio all’indomani della “chiamata” (o almeno così ci auguriamo) non è per nulla un gioco. Anzi, se l’idea è pubblicizzare la vita monastica è un (triste) conto. Aggiungere, però, i messaggi subliminali di questo programma alle pressioni sociali, agli ostacoli nell’autodeterminazione e alla violenza psicologica che le donne di ogni età in Italia subiscono dalla società e dalle destre estremiste – anche in Italia – è, oggi come oggi, irragionevole e irresponsabile.

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