Sta facendo discutere l’articolo di Repubblica (scritto da Liana Milella) sulle unioni civili, e il presunto flop che si ricava dai numeri, ad un anno dalla loro approvazione. Secondo uno dei maggiori quotidiani italiani, infatti, la situazione è la seguente: «In otto mesi 2.802 unioni civili. In tutta Italia. Erano 2.433 a fine dicembre. Se ne sono aggiunte 369 tra gennaio e fine marzo. Non c’è che dire: decisamente un flop». La prima domanda che emerge, di fronte ad un articolo apparentemente neutro sugli aridi numeri, è: cui prodest? Cerchiamo di rispondere a questo interrogativo.
I numeri sono dati che vanno letti. Un numero di per sé ci fornisce un’informazione di tipo quantitativo, ma se non interpretato non ci dice nulla al di fuori di quel dato. Le unioni civili sono 2.433. In virtù di quali parametri si lega questa realtà al fatto che tale cifra è valutabile come fallimento – presunto o reale – di una legge che si aspettava da trent’anni e più? Pare che l’autrice dell’articolo non riesca ad andare, appunto, oltre i numeri. Ma quest’approccio è fuorviante e, se vogliamo, anche ideologico: è la quantità di persone che accede a un diritto a renderlo lecito, auspicabile o giusto?
Mettere insieme numeri e dati è un esercizio anche affascinante, perché ci permette di credere di avere una forma di controllo sulla realtà. Ma rischia di incappare in errori di metodo grossolani. E rischia di alimentare visioni distorte. Facciamo un esempio di altra natura. Guardando al numero delle donne presenti nelle forze armate, in Italia e in Europa, ci troviamo di fronte a cifre limitatissime: 3% di presenze femminili tra i carabinieri, una percentuale tra il 4% e il 10% negli eserciti di Germania, Francia, Spagna e Inghilterra. Al di là delle critiche sul militarismo, aprire alla leva femminile è tuttavia un passo in avanti per la piena parità tra uomini e donne. Tale “passo” va valutato di per sé o in base a quante aventi diritto decidono di compierlo?
Accanto a questi elementi, ce ne sono altri che potrebbero aiutare a capire il dato: la crisi economica non aiuta già gli eterosessuali a metter su famiglia, figuriamoci persone che devono scontare anche le aggravanti della discriminazione per il proprio orientamento, che acuisce il fenomeno. Il ritardo culturale che può esistere tra provincia e centro metropolitano, ancora, potrebbe essere un poderoso freno per quelle persone che magari vivono insieme ma non se la sentono di esporsi. Molte coppie, ancora, sono sposate all’estero e il loro matrimonio verrà riconvertito in unione civile. C’è una fascia di popolazione, ancora molto giovane, che non fa progetti in tal senso… Un quadro molto composito, insomma, che Milella dimostra di non conoscere.
Nell’articolo in questione, che non tiene conto di tutto questo, emerge infine un ulteriore limite. Sembra di ravvisarvi, infatti, un sottotesto che recita, più o meno: “avete fatto tanto casino per unirvi e alla fine siete quattro gatti”. Che mi ricorda i miei genitori quando volevo con tutte le forze un giocattolo, me lo compravano e ci giocavo per una settimana per poi abbandonarlo. Ma il desiderio di famiglia e più in generale le relazioni tra persone, che si attui attraverso scelte personali o con le unioni civili, andrebbero trattati con maggior rispetto di un capriccio del momento.
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