Giorgia (nome di fantasia, capirete presto perché) è una studentessa siciliana ed ha poco più di 20 anni. Qualche tempo fa ha deciso che voleva sottoporsi, per la prima volta, ad un test per l’HIV: roba da stenderle tappeti d’oro, considerato quanto è basso il numero delle persone che lo fanno e quanto è alto, invece, il numero di persone con HIV che non lo sanno (o almeno così dicono le stime). Invece no: invece che il tappeto rosso, Giorgia ha trovato una serie di porte chiuse e nessun medico ad accoglierla.
Quindi Giorgia decide di farlo a Caltanissetta. Va su internet e cerca qualche numero di telefono da chiamare per avere informazioni su dove e a che ora andare. Al centro prelievi le spiegano che no, deve rivolgersi al reparto malattie infettive. Lei chiama e le dicono che può andare a fare il test fino alle 13. “Sono partita subito – ci spiega -: ci sono tre quarti d’ora di macchina e non volevo rischiare di arrivare tardi”.
Intorno alle 11 arriva all’ospedale Sant’Elia di Caltanissetta, a circa un’ora di macchina da casa. Cerca il reparto malattie infettive, lo trova e trova anche la prima porta chiusa. “Non c’era nessuno a cui chiedere informazioni e un sacco di gente fuori che aspettava il suo turno – continua la ragazza -. Ho aspettato lì per un po’ fino a quando è uscito il capo sala. Gli ho detto che volevo chiedere delle informazioni”. Abbiamo già detto che ci sono delle ragioni per cui questo test si può fare anche in anonimato, giusto? Ecco. Il caposala guarda Giorgia e le chiede cosa volesse sapere. Lei ci prova a fargli capire che non aveva molta voglia di dirlo davanti a tutti, ma niente. “Vorrei delle informazioni su un test”, dice. “Che tipo di test?” le risponde l’infermiere.
“Noi non possiamo fare niente – le risponde il medico – possiamo solo fare una domanda, ma poi deve tornare domani e andare al centro prelievi”. Ma come, non era stato proprio il centro prelievi a mandarla al reparto di malattie infettive? “Intanto si erano fatte le 12 – racconta ancora Giorgia -. Spiego che abito in un’altra città e che mi era stato detto che si sarebbe fatto tutto in giornata. A qual punto il medico sembra cercare una soluzione: “Vediamo cosa possiamo fare adesso”, le dice. La porta si richiude alle spalle del dottore. Giorgia aspetta quasi un’ora senza che si veda più nessuno. “Qualche minuto prima dell’1 me ne sono andata – spiega -: il reparto stava per chiudere, non aveva senso restare ancora”.
In una mattinata, nessuno ha chiesto alla ragazza come e quando pensava di essersi esposta al virus, fosse anche solo per capire se fosse passato un test in quel momento avesse senso oppure no. Nessuno le ha dato informazioni sulla prevenzione, né su altri potenziali rischi. Niente di niente.
Giorgia però non intende rinunciare al suo proposito. E qui passiamo dal tappeto rosso ad un premio speciale per la tenacia.
“Ho deciso di andare ad Agrigento, pazienza – continua a raccontare la ragazza -. E anche in questo caso ho cercato qualche riferimento su internet”. Il primo numero che trova, quello non esiste più. Finalmente le rispondono al centro prelievi e le dicono che, sì, può andare a fare il test.
“Sono riuscita a farlo, ma io ho visto solo un infermiere”. Quando Giorgia è arriva all’ospedale di Agrigento ad accoglierla c’è, appunto, un infermiere, che non le chiede niente, non le dà alcuna informazione. Le preleva il sangue, le chiede solo se il test deve restare anonimo e le fa scegliere il codice che sarà abbinato al campione di sangue e al risultato. “Torni tra due giorni” le dice. “Mi sentivo sollevata: in quel momento tutto quello che mi interessava era fare il test” commenta lei. Giorgia due giorni dopo torna per ritirare i risultati. “Era negativo – commenta – ma io non ho mai visto un medico e non mi sembra una cosa normale. Io mi sarei aspettata un confronto. Anche se il test era negativo, sono cose delicate. Ho voluto mantenere l’anonimato, ma questo non significa che non sarebbe stato giusto avere delle informazioni”.
“Io certe cose le so per cultura mia, ma non tutti le sanno e qualcuno deve spiegarle a chi si presenta in ospedale per fare una cosa del genere. Non c’è un’informazione, non un opuscolo, non c’è un medico che si confronti con te. Niente di niente. Non me l’aspettavo”. “Se fossi stata una persona senza conoscenza del tema e mi fossi presentata a fare il test due giorni dopo un rapporto a rischio – si chiede Giorgia – sarei potuta tornare a casa convinta di non avere niente e ritrovarmi con l’Aids conclamato tra alcuni anni”.
Inutile dire che nessuno le ha neanche spiegato che esiste il test rapido, che si compra in farmacia, si può fare a casa e che dà risultati affidabili. “Non lo sapevo – rivela -. Ma ora che lo so lo prenderò in considerazione se dovessi decidere di farlo di nuovo: affrontare tutto questo è sinceramente avvilente”. Un’altra persona, al suo posto, forse avrebbe rinunciato.
Tra poco sarà l’1 dicembre, la Giornata Mondiale contro l’Hiv/Aids. Ci saranno campagna, alcune sono già partite, che parlano di prevenzione, altre che spiegano quanto lo stigma sulle persone con Hiv sia sbagliato, altre ancora che sottolineano l’importanza di fare il test, forse qualcuna ricorderà che esiste l’autotest. Poi, però, c’è la realtà. Quella fatta di centri d’eccellenza, certo, di associazioni che mobilitate tutto l’anno per sensibilizzare su tutte le malattie sessualmente trasmissibili, ma anche di situazioni come quella che ha vissuto Giorgia e chissà quanti e quante come lei, a cui nessuno ha dovuto spiegare che fare il test è importante, ma che si sono trovati davanti un muro di gomma.
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