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Presidente Napolitano, “sindaca” e “ministra” sono previste dall’italiano

Doveva essere una cerimonia come molte altre: invitati in pompa magna, solito parterre dell’Italia che conta, tanti fotografi, convenevoli e parole di circostanza. Così si sarebbe dovuta svolgere la consegna del Premio De Sanctis per la saggistica a Giorgio Napolitano, per la sua opera Europa politica e passione, alla casina del Bel Respiro di Villa Pamphili a Roma. Ma c’è stato un “fuori programma” il cui regista è stato proprio “re Giorgio”. Il presidente emerito ha infatti rivendicato la sua licenza «di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana», mentre riceveva la targa e rivolgendosi sia a Laura Boldrini, sia alla neo-ministra Valeria Fedeli «nell’orribile appellativo di ministra o nell’abominevole appellativo di sindaca». Dichiarazione seguita da un applauso tanto fragoroso quanto imbarazzante.

Il presidente emerito, Giorgio Napolitano

Dichiarazione che è il risultato di un certo modo di intendere la politica – modo tardo-novecentesco, di cui Napolitano è naturale incarnazione – per cui il potere è, di base, maschile.  E se quel potere è “conferito” alle donne, non può esserci equiparazione morfologica o verrebbe a mancare il presupposto stesso della concessione. Se una donna può essere “ministro”, è perché c’è un uomo a volerlo. Se invece una bambina da grande vuole fare la sindaca, l’astronauta o la pompiera, non c’è permesso che tiene. Anzi, non è proprio previsto il concetto di elargizione. Esiste solo la facoltà di farlo, se si vuole. Evidentemente per il sistema culturale a cui Napolitano fa riferimento, tutto questo è inconcepibile.

Riflettiamo un attimo sulle sue parole. La sua è, per sua stessa ammissione, una reazione (cioè, un rifiuto) alla trasformazione di “dignitosi vocaboli” al femminile. Per cui il passaggio grammaticale di genere toglie di conseguenza dignità a quei vocaboli stessi. Procedimento che, se risaliamo anche alla nostra memoria, non va molto lontano da affermazioni quali “non fare la femminuccia” per ingenerare vergogna in un bambino (maschio) che magari a cinque anni piangeva per lo zucchero filato. Perché essere come una donna è presentato, in quella percezione, come condizione di svantaggio. E grazie presidente per aver picconato anni di lotte femministe, di percorsi di educazione di genere nelle scuole e qualsiasi altro tentativo per dimostrare che l’uguaglianza formale passa per il riconoscimento di tutte le diversità, a cominciare da quella tra maschi e femmine.

Napolitano con Laura Boldrini

Sempre a mio giudizio, in tale episodio possiamo rintracciare fatti di scarsa dimestichezza linguistica. “Ministro”, infatti, deriva dalla parola MINISTER (che per altro ha legami con la parola MINUS) e significa “colui che serve”, ovvero “servo di”. I ministri, infatti, dovrebbero servire il popolo grazie alle loro mansioni e alle loro qualità politiche. Parola speculare e contraria è MAGISTER, che ha al suo interno il termine MAGIS, ovvero colui che sta sopra, il “maestro” (da cui poi nasce il termine). In latino erano previsti i femminili di entrambi i nomi, per cui avevamo sia MINISTRA, sia MAGISTRA.

Mi si dirà che le cose cambiano, col tempo, ed è verissimo. Ma se ammettiamo “maestra”, come femminile di “maestro” – e con la conseguente perdita di prestigio del termine, che non è più ruolo guida della società, ma figura da esporre, ahinoi, alle isterie dei movimenti no-gender, dei genitori contro i vaccini e altre amenità similari – possiamo ammettere, per le stesse regole di trasformazione e adattamento, il femminile “ministra”. Discorso analogo per “sindaca”, che si forma cambiando suffisso (passando cioè da -o finale in -a) esattamente come facciamo per termini quali “modello/a”, “fornaio/a”, “operaio/a”, ecc.

Napolitano, Boldrini e Fedeli al momento dell’elezione di Mattarella

Parole non orribili né tanto meno abominevoli, dunque, ma semplicemente “grammaticali” nel senso che ne è previsto l’uso nella grammatica italiana: basti vedere il sito della Crusca o un pregevole articolo di Cecilia Robustelli su La 27esima ora. Regole del linguaggio a cui anche Napolitano, a prescindere dalla carica che ricopre e dalle licenze che si vuole prendere, deve obbedire come chiunque altro.

Concludo con un ultimo accenno all’applauso scrosciante prodotto, in modo quasi catartico, dai molti uomini e dalle molte donne lì presenti, al momento. Sarebbe il caso che chi ha vissuto come “liberatorio” quell’istante si interroghi sulla vicinanza culturale – almeno su un piano quanto meno inconscio – con quei movimenti da cui magari poi si prendono le distanze e che definiamo come populisti, estremi, autoritari e via discorrendo. Il non riconoscimento dell’altro, e dell’altra nello specifico, seguito dalla sua demonizzazione è moneta sonante in quei sistemi sub-culturali che privilegiano invece un modello unico imperante che, guarda caso, è quello afferente alla “tradizione”. Etnica, per un Salvini qualsiasi. Di genere grammaticale per Napolitano. Approccio che, per quel che mi riguarda, è (in questo caso sì) orribile e abominevole. Ed io credo che il nostro paese debba meritarsi di meglio, in ogni caso.

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