Secondo la Corte di Cassazione, dare dell’omosessuale a qualcuno, anche se non è gay, non è un’offesa e dunque non è un reato.
La notizia è di pochissimi giorni fa: la sentenza Cass. 50659/2016 in qualche modo cancella ogni pregiudizio sull’uso della parola omosessuale. Il caso in questione riguardava due uomini in lite tra loro per motivi legati alla moglie di uno dei due. Uno di loro aveva definito l’altro come “omosessuale” in una precedente querela ed era poi stato condannato per diffamazione il 20 marzo 2015 dal Giudice di pace di Trieste, decisione ribaltata appunto dalla Cassazione. «Nel presente contesto storico il termine “omosessuale”», si legge nella sentenza, non può essere inteso con «un significato intrinsecamente offensivo».
Questo vuol dire che da questo momento in poi qualcuno può dare dell’omosessuale, o peggio del “frocio” o del “culattone” o utilizzare altri termini con intento offensivo e non avere alcuna conseguenza penale?
No, assolutamente no.
Però questa sentenza fa dei distinguo quantomeno discutibili e sarà interessante leggere prossimamente le motivazioni della stessa nei dettagli.
Secondo la Suprema Corte, infatti, «la tipicità della condotta di diffamazione consiste nell’offesa alla reputazione: è dunque necessario che i termini dispiegati o il concetto veicolato, nel caso di comunicazione scritta o orale, siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto» al quale sono rivolti.
«A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione – prosegue il verdetto – assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune». Fin qui tutto chiaro, però poi la sentenza sembrerebbe concludere dicendo che «il termine utilizzato non può ritenersi effettivamente offensivo» nemmeno se pronunciato o scritto con «intento denigratorio».
Sebbene l’intento dei Giudici di Cassazione sia – evidentemente – lodevole, grosse perplessità lascia questa interpretazione per cui il termine “omosessuale” non possa ritenersi effettivamente offensivo nemmeno se pronunciato o scritto con “intento denigratorio” perché, a nostro avviso, bisognerebbe invece valutare in concreto la portata offensiva di ogni singola azione.
Se è vero che le offese evidenti, come quelle segnalate in una guida di pochi mesi fa (dare del “frocio” oppure accostare il termine “gay” a “pedofilo”) continueranno comunque ad essere perseguite, ci si domanda se invece delle azioni offensive meno evidenti in cui si ricorre all’uso della parola “omosessuale” non rischino di non ricevere tutela a seguito di questa sentenza. Ai posteri l’ardua sentenza!
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