di Erica Donzella
Ho iniziato a tastare la temperatura della mia fronte a pagina diciotto. Ho sperato che pagina diciannove mi facesse tirare un po’ il fiato, un sospiro di sollievo. Niente. Ho avuto anche la necessità di dover afferrare il termometro per fuggire ogni sospetto di immedesimazione totale con quello che leggevo (ipocondria, ora pro nobis). Ho pensato: “Questo libro è così, tutto quanto, rassegnati”. Come un sub in apnea che sprofonda in un buio non suo e più scende in profondità più viene attirato dall’abisso.
Febbre di Jonathan Bazzi non è soltanto il caso letterario dell’anno, non è soltanto il racconto di un bambino invisibile che da Rozzano – periferia di una vita e centro di una narrazione – balbetta il tentativo di una rivolta tutta umana, tutta corpo e verità. Anzi, solo verità. Questo libro sta diventando il simbolo di un nuovo realismo che non ha bisogno di fronzoli per raccontare ciò che c’è, che esiste nostro malgrado, anche se quello di cui si è certi è che una malattia esiste e che rimarrà nel corpo di chi ne narra sintomi, relazioni tra il proprio e l’altrui corpo. Febbre è la mimesis completa tra l’opera e l’autore, tra la scrittura e la vita.
Allora Bazzi dice tutto quello che sa, sul mondo, di cui scrive con dolore e orgoglio, un mondo come volontà e fortificazione. Scrive senza aver bisogno di innestare falsi reticolati di finzioni. Scrive di Rozzano e del vicino di casa di cui ha paura, dei tarocchi che inizia a studiare in adolescenza, di un padre assente, del coming out ignorante dalla madre, della prima mano sulla sua gamba e del terrore della “prima volta”. Jonathan scrive senza paura di una febbre che non scende a compromessi, che lo costringe e rivedere priorità e a rallentare dentro il suo trambusto quotidiano, a scalare di marcia e a considerare il proprio corpo come un suo doppio, incontrollabile; di una malattia che esiste, che non sparirà e di cui non ha più paura di parlare.
Quale altro stile potrebbe mai avere un autore quando si trova nudo davanti alla propria verità? «Scriverne […] sfruttando la mia condizione di privilegiato, di contaminato che non prova vergogna. […] appropriarmene con le parole, per imparare, vedere di più: usare la diagnosi per esplorare ciò che viene taciuto». Perché è questo quello a cui la letteratura dovrebbe aspirare, ovvero ad essere parte di un esempio per chi verrà dopo. “Febbre”, ovvero della vita e di ogni cosa vera. Grazie bambino invisibile.
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