A luglio si celebra il Disability Pride Month. Raccogliamo la testimonianza di Simone Riflesso, che ci racconta la sua esperienza e cosa significa la parola “orgoglio” quando si ha una disabilità.
Ci ho messo trent’anni a gestire il senso di inadeguatezza dovuto allo sguardo altrui in direzione delle mie scheccate, e adesso mi tocca ricominciare tutto da capo. Trent’anni a fare a patti con le aspettative sul mio essere gay, una fatica per riuscire a darlo completamente per scontato. E adesso che sono diventato tetraplegico, boom, si riparte dal via. Luglio è, oltre al mese delle ascelle tuonanti e delle canotte sudate – sempre sian lodate – quello del Disability Pride Month, e da quando ho incontrato la mia disabilitazione, ho dovuto averci presto a che fare con certi interrogativi. Orgoglioso di che cosa? Di cosa dovrebbe essere orgoglioso un normo dotato? Di niente no? È perfettamente normale esserlo.
Ecco. Noterete una certa familiarità, ma sono anche abbastanza convinto che non abbiate trovato nulla di poi così strano nel leggere queste due righe. Pensate però come sia leggerle avendo una disabilità. Spoiler: non suona un granché. Eppure è così che si presume dovrebbe sentirsi un disabile nella nostra società: un imprevisto. Un’eccezione, frutto di un errore di percorso, che grazie a dio non è capitato proprio a me. Un problema a cui dover trovare una soluzione. Una spesa, un peso. Siamo un fastidio, un disagio che non si sa mai come gestire, e adesso cosa gli dico poverino, come mi comporto? Siamo un sacrificio. Una disgrazia. Una gatta da pelare. È triste, ma in fondo vi sembra ancora tutto sensato vero? Che vita di merda. Toccasse a me non ce la farei mai. Dipendere da qualcuno? Preferirei morire.
Reclamiamo la nostra dignità, rifuggiamo dall’umiliazione. Ci corazziamo nei nostri corpi non conformi, ci rifiutiamo di farci sentire difettosi. Celebriamo i nostri corpi schembi. Ci liberiamo dal senso di colpa. Dagli sguardi compassionevoli, da quelli ammirati. Ci riappropriamo del nostro valore. Ci ribelliamo al silenzio, all’essere ignorati, all’isolamento, alla derisione. Al contenimento. Manifestiamo il nostro essere noi stessi, rivendicando con orgoglio il diritto a mostrarci liberamente per quello che siamo. A testa alta.
Dopotutto, a sviluppare un’identità quantomeno sana nonostante tutte le voci che ci rimbombano in testa, dopo tutti i bastoni fra le ruote che ci ritroviamo – metaforicamente parlando grazie a dio – un po’ di orgoglio è lecito no? Resta però il fatto che chi può manifestare con la sua visibilità è sempre e comunque chi ha il privilegio di poterlo fare. Per questo, il nostro, rimane sempre un’orgoglio monco. Quello che mi auguro, per tutte le persone con una disabilità che perdono tempo prezioso nascondendosi dal mondo, sentendosi inadeguate, anziché vivere la propria vita in maniera piena e consapevole, è la forza di guardarsi con gli occhi di chi riconosce il proprio valore. È la capacità di dirsi “vai bene così”.
Simone Riflesso
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