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Cuore allegro, quella promessa mantenuta della vita a tutti i costi

«Mai lasciar ferme, sole, le cose e le parole. Hanno bisogno di noi». Elvira Seminara firma la prefazione al libro di Viola Lo Moro e mette nero su bianco un movimento elastico che rimbalza da una parte all’altra del mio sentire. Perché è esattamente quello che riesce a compiere la poesia di Lo Moro: un rimbalzo continuo, un salto silente ma visibile dalle cose alle parole, e viceversa.

La promessa mantenuta di Cuore allegro

Cuore allegro scorre sotto i miei occhi come una promessa mantenuta, quella della vita a tutti i costi. Della vita funesta e terrificante, che si consuma nostro malgrado insieme alle cose e alle parole, appunto. In cosa riesce questo cuore se non nel suo incedere naturale da un battito all’altro? In tanto altro sembra scrivere Lo Moro, quando fa i conti con la notte tenera (la citazione a Fitzgerald mi convince, perché siamo fatt* per il 90% di chi ha scritto prima di noi) e si rende conto che, in realtà, è “appuntita e uncinata”.

Cuore allegro, tra delusione e sogno

In un crepuscolo scisso tra luce e buio, che rimanda alla stagione infernale di Rimbaud («Una sera ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara, e l’ho ingiuriata»), questo cuore mente a se stesso pur di mantenere il patto d’allegrezza, mentre tutto intorno sembra non schiarire mai, mentre le albe “sono serpenti neri”.Il cuore di Viola Lo Moro ha ventricoli come «camere separate», in cui albergano la tenerezza delusa, il sogno sul fare del giorno, la confusione dell’amore quando invade a piene mani il resto del nostro universo:

«Portando all’eccesso la complicanza del nostro amore/
ho confuso te con me/
noi con me/
Il non-noi con il non-me».

Un antidoto all’indifferenza

Lo Moro torna sempre alle cose, anche se illuminate poco bene, e lo fa per non cedere all’indifferenza dei sentimenti induriti e di ciò che popola la vita di ogni giorno, nell’intento di non voler trascurare il dolore, ma tentando invece di ribaltarlo, non fosse altro per ricordare chi c’è stato e come si regge in piedi sentendo, dentro di sé, la forza di un patto con qualcuno che si trova altrove.

«E il mio cuore non si accorda/
si dissona nel crepuscolo/
si annebbia a tal punto la vista/
da convenire con la ferraglia/
che io pure pure io/
devo diventare treppiedi per stare in piedi».

Non batte all’impazzata questo cuore: è adulto e limpido, ha il battito regolare di chi, forse, ha imparato ad aver bisogno del silenzio più del caos, di «creare il vuoto opaco appena in tempo dopo le urla».

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