Rainbow

Allah loves equality? Non è importante, ma è giusto poterlo credere

Wajahat Abbas Kazmi

La foto al Roma Pride di Wajahat Abbas Kazmi con la scritta “Allah loves equality”, che abbiamo pubblicato sulle nostre pagine, ha creato diverse reazioni. Alcune molto livorose e violente contro l’attivista musulmano, tacciato di ipocrisia. Mi fa specie che anche tra certi attivisti – o quel che ne rimane – si giochi alla seguente generalizzazione: siccome l’islam ci ha trattati in un certo modo (e continua a farlo, lo sappiamo benissimo) allora non ha senso mostrare quella scritta. Credo che sia un atteggiamento che, seppur parta dalla considerazione di fenomeni purtroppo ben noti, si nutra di pregiudizi contro le persone Lgbt musulmane in quanto tali. Vediamo perché.

L’omofobia non è prerogativa dell’islam

La fede (musulmana) è naturale nemica della gay community? Potremmo allargare tale generalizzazione a qualsiasi altra confessione, sul piano storico e geografico. Nel corso dei secoli il cristianesimo si è distinto per persecuzioni molto feroci contro i cosiddetti “sodomiti”. Tutt’ora diverse chiese cristiane hanno responsabilità enormi nella persecuzione dei gay nei rispettivi paesi, come la chiesa ortodossa in Russia o quelle evangeliche nei paesi africani. Gli stessi ebrei ortodossi non sono tra i più benevoli con la comunità Lgbt israeliana. Certo, a Gerusalemme e a Tel Aviv i pride si fanno – e va benissimo che sia così – contrariamente a quello che succede a Raqqa o a Bagdad, ma non credo che le cose miglioreranno in quei paesi se non accettiamo l’esistenza di una “mezzaluna rainbow”, che necessita della nostra solidarietà.

L’interesse nel sostenere i credenti Lgbt

La comunità ebraica al pride di Roma

Ci sono quindi religioni, riconducibili al cristianesimo e non, che per violenza e crudeltà non hanno da imparare niente da nessun’altra. Islam incluso. Farei notare, ancora, che certi discorsi sono analoghi a quelli che mi han fatto i miei detrattori nel mio articolo sul Fatto Quotidiano, con tanto di invito a manifestare in Arabia o in Iran (li amo quando sono così stupidi, perché mi ricordano – per paradosso – la fatica fatta per costruire il mio senso critico). Credo, invece, che abbiamo tutti e tutte interesse a fare in modo che le persone Lgbt credenti portino le loro istanze nella fede di appartenenza, perché aiuta al processo di decostruzione omofobica. Se oggi in Scozia ci si può sposare in chiesa è anche perché qualcuno ha cominciato a parlarne, in quella comunità, tempo addietro.

Questioni di fede politica

Capisco anche che per qualcuno è una questione di fede politica – a cominciare dall’antica querelle che abbraccia la questione mediorientale – ma quella “fede” non rende chi la pratica meno integralista, violento e discriminatorio di quei soggetti che si dice di voler combattere in altri contesti. A tal proposito credo sia importante uno scambio di battute tra lo stesso Wajahat e un altro attivista di fede ebraica, Federico Ariel, (sul profilo di Francesco Lepore) che manifestano reciprocamente stima e affetto. Una testimonianza che vale molto.

Andare oltre le etichette

La solidarietà tra Federico e Wajahat

Come già detto, nessuno crede di voler equiparare l’apertura di alcuni esponenti delle comunità musulmane ai progressi già in atto in altre confessioni e in altri paesi, ma non è certo attaccando o insultando gli islamici arcobaleno che avremo situazioni differenti laddove si prega per Allah. Anche perché vedere il “musulmano” senza arrivare all’uomo è un processo che potremmo ricondurre a una certa islamofobia: è limitarsi a leggere l’etichetta, scollegandola dalla verità dell’individuo sulla quale viene appiccicata. E forse, visti gli ultimi decenni, aggiungere razzismo a odio sociale non è una strategia che può vincere. Aggiungo, ancora: pretendiamo che il cosiddetto “islam moderato” si dissoci dal terrorismo e si avvicini alla nostra cultura. Ma se quando lo fa gli tiriamo le pietre, non dimostriamo a nostra volta una profonda intolleranza?

Da quale parte vogliamo “Dio”?

Poi possiamo affrontare il discorso sul perché si ha ancora bisogno di Dio, ai nostri giorni, ma forse è una tematica che andrebbe presa a parte e parallelamente. Non ho bisogno, personalmente parlando, che Dio, Allah o chiunque altro mi ami. Ma magari qualcun altro sì. Credo che sia preferibile di gran lunga che quel dio – agli occhi di chi ci crede – sia mosso da amore che da sentimenti opposti. Sentimenti che potrebbero, sul medio e lungo periodo, determinare dei problemi o dei benefici alle persone cui sono rivolti. Poi è tutta una questione di scelte e la domanda è semplice: vogliamo che gli dèi siano dalla parte di Putin o di chi lancia i gay dai tetti dei palazzi, o vogliamo che la comunità Lgbt sia ovunque libera di essere se stessa? Ai posteri l’ardua (ma poi mica tanto) sentenza.

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