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“Quello che tu chiami vizio, per me è la cosa giusta”: Atti osceni a teatro a Milano

Oscar Wilde. Per il Novecento, uno dei più grandi letterati, poeti, drammaturghi della storia inglese. Per un giornale londinese del 1895 “il tipo fisico dell’invertito, del terzo sesso”. Un’etichetta pericolosa, che costò all’autore irlandese due anni di carcere, i lavori forzati, la morte civile e naturale. Come Wilde sia arrivato a una fine tanto drammatica si è occupato di raccontarlo il teatro: in particolare la coppia Ferdinando Bruni/Francesco Frongia, che porta al Teatro Elfo Puccini fino al 12 novembre Atti osceni: la trascrizione scenica del tre processi di Wilde.

La crociata contro Wilde

Il testo, a firma Moises Kaufman, svolge un accurato lavoro filologico: la vicenda è raccontata con le esatte parole dei protagonisti. Non esiste possibilità di appellarsi all’eccesso drammaturgico quando vediamo il meschino e crudele Marchese di Queensberry – un impeccabile Ciro Masella – rivendicare la sua grottesca crociata contro Wilde: minacce, bouquet di ortaggi (non è difficile immaginare quali), ripetuti tentativi di interrompere le prime degli spettacoli, tutto questo per difendere suo figlio, Lord Alfred Douglas – interpretato da Riccardo Buffonini – perfetto nel dare corpo a tenerezza e ambiguità di quel Bosie che Wilde amò in modo totalizzante (basti pensare alla sua celebre definizione dell’amore “che non può pronunciare il suo nome”) salvo poi ritenerlo il responsabile della sua rovina.

Il sintomo della deviazione

È il 1894: il marchese, chiamato alla sbarra per diffamazione, conferma di aver diffuso un biglietto con scritto “Oscar Wilde si atteggia a sodomita” [sic]. Non osa accusarlo di essere qualcosa di “tanto orribile”: sembrarlo è già un sintomo di deviazione, e nel puritanesimo vittoriano è sufficiente il sospetto per rovesciare i ruoli. L’arte e la persona stessa di Wilde diventano oggetto del dibattimento, in quello che diventa un processo contro il “più terribile di tutti i reati”. La società inglese si riversa tutta nel tribunale, golosa di assistere alla caduta del decadente, di puntare il proprio dito ipocrita contro “l’altro”, di vomitare il proprio odio al grido di “uccidete quel finocchio!”.

Con le spalle al muro

Trovandosi con le spalle al muro, Wilde e il suo avvocato Clarke (un appassionato Giuseppe Lanino) ritirano le accuse. Ma la legge che punisce “gli atti osceni tra persone di sesso maschile”, rimasta in vigore fino al 1967 (solo gli uomini, perchè, commentò la regina Vittoria, “le donne queste cose non le fanno”), non può non essere applicata, anzi una condanna esemplare è politicamente indispensabile.

La “cosa giusta”

Oscar potrebbe lasciare il paese per sottrarsi all’arresto, invece decide di rimanere e sceglie di lottare in prima persona perché “accettare passivamente i valori della propria epoca è la forma più orrenda di immoralità”. La sua intensa difesa spinge la giuria a uno stallo, ma ormai tutti gli hanno voltato le spalle. È nella risposta a chi lo abbandona uno dei passaggi più significativi sul piano della rivendicazione: “Quello che tu chiami vizio, è la cosa giusta per me”. Semplicemente. Il terzo processo si chiude con le violente parole di un giudice secondo il quale “chi è capace di simili atti è sordo a ogni sentimento di vergogna”, e con la scelta di un Paese che preferisce “un po’ di bigotteria a troppa tolleranza”.

La potenza della rievocazione

Bruni e Frongia tratteggiano un passaggio storico dolorosissimo con una notevole efficacia narrativa, resa maggiore dalla messa in scena ridotta all’osso, fino alla assenza quasi totale di scenografia, mentre la forza – a tratti commovente – del testo è sulle spalle di un cast di attori che offrono una grande prova, rivestendo ciascuno più ruoli: Giusto Cucchiarini, Nicola Stravalaci, Edoardo Chiabolotti, Ludovico D’Agostino, Filippo Quezel. Su tutti però spicca l’unico ruolo che rimane per tutte le due ore di spettacolo, Oscar Wilde: Giovanni Franzoni, soprattutto nei monologhi che segnano la sua graduale e inarrestabile consunzione sorprende per intensità.

“Un giorno vi vergognerete!”

Come non sempre accade, lo spettatore si trova del tutto immerso nella vicenda indipendentemente dal proprio vissuto personale ed è costretto a scoprire quanto, più di un secolo dopo, siano cambiati alcuni termini, ma l’odio sotteso sia ancora presente. “Un giorno vi vergognerete!” chiosa Wilde prostrato nell’ultima disperata difesa che sembra parlare direttamente all’oggi fuori dal palcoscenico. Atti osceni ha il merito, al di là del pregevole documento storico, di interrogare direttamente il presente. Se la storia ha riabilitato l’autore per manifesta grandezza, rimane l’amara convinzione che il giorno della vergogna per l’omofobia che uccide sia ancora lontano.

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