“Rettore donna” è solo Donatella. E studiate l’italiano, per dio!

Non si capisce perché tutti quanti continuino insistentemente a chiamarla “rettore”, seppur sia una donna. La prima ad occupare questo ruolo alla Sapienza di Roma. Stiamo parlando di Antonella Polimeni, rettrice – sì, è questa la formula grammaticalmente corretta – del più antico ateneo della capitale. Eppure, a leggere i titoli dei giornali di questi giorni, sembra che il femminile dei nomi di professione sia ancora un universo inesplorato per la nostra stampa. E se dai giornali passiamo al cicaleccio da social, la situazione peggiora pure.

I titoli dei giornali sul “rettore donna”

Titolo su Il Messaggero

Basta fare una ricerca sul web, per avere la dimensione della tragedia. I titoli dei maggiori quotidiani nazionali e dei siti degli stessi hanno titolato – almeno in un primo momento – con “rettore” al maschile. Poi se clicchiamo sui titoli delle ricerche, e ciò vale almeno per Repubblica e il Corriere, appare “rettrice”. Il Messaggero continua a troneggiare, al momento in cui si scrive, “rettore donna”. Non va meglio sulle riviste femminili, se anche su Di lei troviamo il primo “rettore donna” della storia a La Sapienza, sebbene nell’articolo compaia la forma adeguata. Non va meglio nelle agenzie quali AdnKronos. Come si accennava prima, una tragedia. Linguistica, in primo luogo. Ma non solo.

Cosa c’è dietro la resistenza ai fenomeni linguistici

È anche un problema di natura politica e sociale, infatti. Perché chi studia i segreti e le leggi del linguaggio, sa che dietro un fenomeno linguistico, il suo manifestarsi, le resistenze che incontra o – al contrario – ciò che ne aiuta la propagazione e la fortuna linguistica non è mai un fatto squisitamente neutrale. Soprattutto, molto ci dicono le resistenze a un fenomeno. Ad esempio, durante il fascismo il regime “resisteva” ai forestierismi (le parole che arrivavano da altre lingue) e ai dialetti. Dietro quel rigetto, c’era un disegno politico specifico. La stessa cosa si può dire del sospetto (militante, in certi casi) con cui vengono “accolti” o rigettati i nomi di professione declinati al femminile.

Priulla: “Rettrice uomo, non pervenuto”

Titolo su Di lei

Una spiegazione ce la fornisce Graziella Priulla, sociologa e femminista. «Tutti/e a discutere se sia una rettrice o un rettore donna (rettrice uomo non pervenuto)» scrive sul gruppo Laboratori di genere. E continua: «In questi giorni torna alla ribalta un problema antico. Sette rettrici a fronte di 77 rettori. Tutte al centro-nord. La prima? appena 28 anni fa al vertice dell’allora neonato ateneo di Roma Tre fu eletta Bianca Maria Tedeschini Lalli». Per Priulla il problema sta proprio in questa asimmetria. E sì, c’entra il potere. Il solito potere (al) maschile.

Una mera questione di potere

«Eppure» continua Priulla «nelle università italiane ci sono più donne che uomini: sono di più le studentesse (55,4%), di più le laureate (56%), di più le studiose post laurea (59,3%). Le donne ottengono risultati migliori […]. Un gap al femminile che si ribalta completamente se si guarda alle cattedre: tra i professori associati le donne sono solo il 37% e solo il 23% tra i professori ordinari. Se non è una mera questione di potere; se non si tratta di una cooptazione nei clan maschili che le inerzie linguistiche registrano puntualmente, ditemi che cos’è».

Un sistema che fa fuori donne e minoranze

Graziella Priulla

La resistenza linguistica all’accoglienza del femminile nei nomi professionali è il riflesso dell’impermeabilità di un sistema di potere di tipo maschile – e quindi maschilista – che fa fuori le donne. Aggiungerei, che fa fuori tutto ciò che non obbedisce al solito paradigma: bianco, maschio, eterosessuale… Se sparisce il nome per nominare le cose, risultano meno evidenti, quanto meno, le cose da nominare. Una damnatio antica, ma persistente. La resistenza al femminile delle professioni può essere interpretata così.

Contro i grammatici da tastiera

Eppure, a giudizio di chi scrive, il problema non è solo politico. E c’è, sia ben chiaro. L’altra faccia della medaglia, in questo processo di negazione e rimozione, è una diffusa ignoranza della materia di cui si parla. Tradotto: non si conosce l’italiano. A farne le spese, in termini di pazienza, è Vera Gheno. L’autrice di Potere alle parole e Femminili singolari, nonché linguista, combatte da tempo una battaglia non proprio divertente con quegli improvvisati grammatici da tastiera che, di fronte alle competenze disciplinari, rispondono con i sempreverdi “e allora dovrò dire presidento?”.

Vera Gheno: “Consultate il vocabolario”

Vera Gheno

Termine spia, presidento – alternato, di solito, a pediatro – di una rozza tracotanza che autorizzerebbe viale Trastevere a richiedere indietro il denaro sperperato per l’istruzione di chi porta avanti argomentazioni siffatte. La studiosa, dizionario alla mano – anzi, a portata di screenshot – tuona sul suo profilo Facebook: «E risuona il mio barbarico “CONSULTATEILVOCABOLARIO!” sopra i tetti del mondo». Segue quindi la pagina, con tanto di lemma (per i meno avvezzi: la voce che riporta il significato del nome consultato), in cui è evidente che il femminile di “rettore” è, appunto, rettrice.

Il femminile dei nomi in -tore

Eppure, e adesso parlo da insegnante, il femminile dei nomi in -tore si studia in prima media. A undici anni, insomma. Insieme ai nomi di genere comune, promiscuo, ecc. Ma, al netto di questo, basterebbe avere come punto di riferimento alcuni termini analoghi. “Direttore”, ad esempio. Il cui femminile non è “direttore donna”. Di Angelina Jolie non diremmo mai che è un attore, bensì un’attrice. E per i più colti – ma appunto è un problema anche di cultura, quello di cui si discute – la pittrice Artemisia Gentileschi non verrebbe mai appellata al maschile. Così come dovremmo aver fatto pace con termini quali “scrittrice” o “lavoratrice”.

Rettore donna: e lo squilibrio è ristabilito

Tornando al discorso di partenza, la resistenza al femminile dei nomi di professioni esiste ed è indicativo del fenomeno già indicato da Priulla: non si accetta che nei posti di potere possano arrivare le donne. Dunque, non potendone cancellarne l’esistenza fisicamente, si oscura l’identità dietro al maschile generico. Maschile che ricorda da quale piatto pende la bilancia del potere. E lo squilibrio è ristabilito. A dar man forte allo stato delle cose, nutrendolo, un’ignoranza di fondo che è parte integrante del problema.

Rettore al femminile? Solo se si parla di Donatella

I sostenitori del maschile generico, per altro, credono davvero che esso sia giustificato da una sorta di legge della natura per cui il potere, così come il linguaggio per nominarlo, è e deve essere maschile. Natura che poi, a ben vedere, è la stessa che viene tirata in ballo quando bisogna negare identità altre, “fuori norma”. Omosessualità in primis. A tutti loro, diremo allora due cose. La prima: per parlare di leggi che regolano lingua e linguaggio – o italiano e grammatica, se preferite – bisogna prima averla studiata. Così come non si acquisisce la specializzazione in virologia sui social, lo stesso non può avvenire con la linguistica. E fateci pace. La seconda: “Rettore” al femminile, solo se parliamo della più nota Donatella. E, se non piace, c’è sempre la terza opzione: tacere. Ci si guadagna in dignità e si risparmia sul senso del ridicolo. Fidatevi.

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