Nella polemica sullo schwa si cela il solito privilegio eteronormativo

L’ultima – e, se mi permettete, inutile – polemica sulla schwa questa volta abbraccia le dichiarazioni di Cecilia Robustelli, una linguista per cui nutro molta stima, soprattutto per i suoi contributi sull’italiano inclusivo e il femminile dei nomi di professione. Studi che ho letto e apprezzato per la lucidità e per l’ampio respiro che non ne fanno solo testi di linguistica, ma anche strumenti di democrazia e di critica sociale. Mi sono stupito, dunque, quando ho letto un’intervista rilasciata di recente in cui attacca lo schwa con argomentazioni che, per quel che mi riguarda, appaiono pretestuose, poco solide e ideologicamente connotate.

Una posizione sullo schwa

Ho un atteggiamento “liberal” nei confronti dei processi linguistici. Ciò mi permette di considerare l’uso della schwa, dell’asterisco, della -u a finale di parola elementi accettabili seppur (in alcuni casi) non condivisibili. Ciò significa che, per quanto mi riguarda, prediligo – quando è possibile – forme perifrastiche più neutre e onnicomprensive. In qualche occasione ho utilizzato asterischi e schwa (la -u finale, purtroppo, non riesco a utilizzarla) più per solidarietà politica che per convinzione “linguistica”. Questa parentesi è necessaria, per quanto mi riguarda, per far chiarire la mia posizione. Politicamente parlando, sto dalla parte di chi sente l’esigenza di rappresentare identità tenute fuori dalla narrazione pubblica. Linguisticamente parlando, dalla parte dell’italiano e delle sue leggi. Che sono molto più ampie di quanto si possa credere.

Le criticità dell’intervista di Cecilia Robustelli

Cecilia Robustelli

Ci sono alcuni passaggi dell’intervista a Cecilia Robustelli che mi lasciano perplesso. Sia perché attaccano scelte linguistiche che non sono mai state all’ordine del giorno, sia perché dimostrano una certa indifferenza (se proprio non vogliamo scomodare il termine “ostilità”) nei confronti delle questioni politiche sollevate dalle nuove identità e che hanno, inevitabilmente, una ricaduta dentro il sistema linguistico. Per secoli, se non millenni, le persone non binarie non sono state rappresentate. Adesso emerge una legittima richiesta di visibilità, anche linguistica. Sostenere che nella nostra lingua i generi sono due è vero. Lasciar intendere – come si evince dall’intervista – che il quadro debba essere immutabile è problematico. Perché, appunto, discriminatorio.

La scomparsa delle desinenze

Tra i passaggi più controversi, riporto queste due frasi: «Se si eliminano le desinenze scompaiono tutti i collegamenti morfologici, e il testo diventa un mucchietto di parole delle quali non si capisce più la relazione» e «si eliminano gli accordi tra le parole e si mina l’intera coesione testuale: e questo è un fatto grave». Peccato, tuttavia, che non si sia mai chiesto di eliminare desinenze e di attentare di conseguenza alla coesione dei testi, parlati o scritti che siano. Le proposte, infatti, sono molteplici: aggiungere lo schwa insieme al maschile e al femminile. O di usare solo la vocale indistinta – perché di questo si tratta, di una vocale – quando in un contesto specifico non abbiamo la certezza del genere di tutte le soggettività in gioco. L’alternativa allo schwa sarebbe, appunto, la -u finale.

Esempi concreti

Facciamo qualche esempio. In un testo scritto, per una comunicazione in un ufficio pubblico, ci si potrebbe trovare di fronte a questi tre casi:

– allə gentilə colleghə
– ai/lle/ə gentili colleghi/e/ə
– ai/lle/u gentili colleghi/e/u

mi rendo conto che ci troviamo di fronte a una certa sovrabbondanza di esiti. Ciò può rendere difficile la lettura. Per tale ragione preferisco formule più neutre, quali ad esempio “all’attenzione del gentile personale”. Ma come si vede, le desinenze (anche in caso di sola schwa) esisterebbero. E non è vero che minerebbero la coesione testuale. Vediamo il seguente esempio:

– “allə gentilə colleghə, si informa che lo sciopero previsto in data 07/11/2020 è stato revocato”.

Di certo, ci vorrebbe del tempo per abituarsi alla nuova soluzione, ma fatico a credere che l’introduzione delle desinenze indistinte abbia reso illeggibile, poco strutturato o non coeso il testo proposto.

Non si vuole cancellare il femminile nelle professioni

La bandiera delle persone non binarie

Un altro elemento critico, che denota quanto meno confusione, si ravvisa laddove si legge: «È invece fondamentale nella lingua italiana nominare donne e uomini con termini maschili e femminili e usare al femminile anche i termini che indicano ruoli istituzionali e professionali di genere femminile se sono riferiti a donne». Perché la domanda, a questo punto, è: e chi lo avrebbe mai messo in dubbio? Anche se l’uso dello schwa dovesse essere istituzionalizzato, in un contesto in cui abbiamo solo uomini si userebbe il maschile. Se ci fossero solo donne, si userebbe serenamente il femminile. In contesti misti si userebbero entrambe le soluzioni. Se ci dovessimo trovare in un consesso in cui ci sono anche le persone non binarie si potrebbe usare lo schwa.

Quando l’italiano standard cancella il genere…

Un altro punto su cui spendere qualche parola è il seguente: «Non è soltanto una posizione femminista: è una posizione da linguista, perché se non si attribuisce alle donne il titolo femminile, si trasgredisce ai principi di accordo e assegnazione di genere». Peccato che l’italiano preveda già soluzioni in cui l’assegnazione di genere non sempre è trasparente. Facciamo alcuni esempi:

– La misura serve per contrastare il fenomeno del bullismo contro adolescenti e minori in generale
– La nostra scuola annovera nel suo staff docenti molto competenti
– Il concorso è aperto a partecipanti di tutte le età

È vero che nel sentire comune queste frasi possono essere lette al maschile, ma è anche vero che possono essere lette esclusivamente al femminile. Poi certo, il contesto può aiutare a chiarire meglio di chi si sta parlando. Ma non credo che si possa attribuire allo schwa la “colpa” per una trasgressione che può già realizzarsi nel nostro sistema linguistico così com’è.

Schwa e cambiamento linguistico

Un ultimo aspetto che reputo controverso è la seguente frase: «La lingua cambia ogni giorno, ma impercettibilmente e in un preciso settore: quello lessicale […]. Ma non cambia, o molto lentamente, per quanto riguarda la morfologia, la sintassi». Ciò non significa, tuttavia, che un cambiamento non si possa proporre! Ed è in tale chiave che andrebbe letta tale soluzione: una proposta. Che viene invece fatta passare per chissà quale costrizione imposta da chissà quale gruppo di pressione. Il che non va molto lontano dall’accusa di lobbismo che viene fatta alle realtà minoritarie che cercano semplicemente di avere spazi di visibilità. E la proposta dello schwa andrebbe raccontato semplicemente in questo modo: il tentativo di guadagnare quello spazio.

Quanto fa paura il cambiamento alla vecchia guardia?

schwa
La posizione dello schwa nell’alfabeto fonetico internazionale

Per altro, non è sempre vero che i cambiamenti avvengono in tempi lunghissimi. Tra le giovani generazioni, ad esempio, il linguaggio è qualcosa di estremamente fluido e mutevole, sia a livello lessicale (molte parole usate dalle vecchie generazioni in gioventù sono cadute in disuso), ma anche a livello morfologico e sintattico. Gli innesti morfologici dell’italiano in verbi e parole di origine straniera sono un’evidenza abbastanza recente (si pensi a “chattare”, “friendzonare”, “likare” giusto per fare tre esempi). E anche a livello semantico, proprio il web è il teatro di estensioni importanti: il termine “virus”, infatti, assume un significato specifico nel linguaggio informatico, così come quello di rete, di “pirata”, di navigazione stessa. Una domanda dunque è: perché non potrebbe accadere anche con l’apertura a formule inclusive? E un’altra: quanto fa paura questa prospettiva alla vecchia guardia, che ha ancora in mano la gestione dei processi culturali di questo disgraziato Paese?

Lo schwa: un pericolo “fantasma”

I fenomeni linguistici, com’è stato detto da più parti, non si impongono dall’altro. Così come il fascismo non eliminò i dialetti, nessuna norma volta a imporre l’uso di asterischi, -u finali e vocali indistinte potrebbe avere la meglio sugli usi linguistici di chi la lingua la usa quotidianamente. Per cui non si capisce la potenza di fuoco a cui assistiamo da qualche anno contro l’ipotesi di inserire una misura che, per affermarsi, dovrebbe divenire d’uso comune. Insomma, sembra che il pericolo sia tutto nella testa di chi ne agita il fantasma. Come quando si parla di “gender”, a ben vedere. O di invasione di migranti. O di dittatura del politicamente corretto.

La gerarchia del privilegio

Si ha invece la spiacevole sensazione, a leggere interviste come quelle di Cecilia Robustelli e di chi le dà spago, che ci sia una parte di “boomer” (perdonerete il prestito linguistico, per altro molto recente) che non ha nessuna intenzione di riconoscere le lotte e le istanze identitarie di altre realtà. Un po’ per pigrizia, un po’ perché non occupare le ultime posizioni nella gerarchia del privilegio è confortante. Si può sempre dire che c’è chi sta peggio. Ma non dovrebbe essere questa la prospettiva di chi si dice femminista, di sinistra, linguista o qualsivoglia altra etichetta che ci si appiccica addosso, giusto per stare a posto con la coscienza. E dietro il quale si cela il proprio privilegio eteronormativo.

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