È stato bello tornare in piazza per il pride, ieri a Roma. Dopo più di un anno, in cui le nostre marce dell’orgoglio sono state “congelate” dalla pandemia. Essere lì, in mezzo a tutta quella gente, è stato qualcosa che mi ha riappacificato con la storia recente. Non solo perché ho rivisto i miei amici e le mie amiche, riprendendoci gli spazi di un’agibilità politica che il covid-19 rischiava di spazzar via, ma anche perché quel “qui ed ora” spezzava una paura. Quella dell’impossibilità di essere uguali a prima.
Il pride: un modo per raccontare la nostra comunità
Certo, è stata una manifestazione diversa, senza carri, senza palco e senza discorsi finali. Ma la natura del pride era tutta lì. Una festa di lotta, una riappropriazione di visibilità, una narrazione di sé che non prende in prestito immagini precostituite e luoghi comuni. Una narrazione che rimodula il “già detto”, cambiandogli segno. E inventa modi nuovi di raccontare una comunità. Chi è fuori dalle dinamiche di movimento e non a contatto con la comunità Lgbt+ stenta a capirlo. Come tuttə coloro che non capiscono cosa significa essere liberə.
Un cannone contro la norma eterosessista
Ho fatto questa premessa perché è fondamentale comprendere la cifra culturale di ogni pride. Come ha avuto modo di dire altrove Alessandro Motta – compagno di lotta e autore del pregevole volumetto Dalla parte del torto, edito da Villaggio Maori sulla gestazione per altri – il pride non deve rassicurare e non può limitarsi a essere una festa. Il pride è un cannone, diretto sull’edificio sociale pensato dalla norma. Quella stessa norma – per dirla con Mieli – che costruisce un sistema eterosessista, escludente, discriminatorio. Il pride prende di mira tutto questo. Decostruendo, ridicolizzando, evidenziando cortocircuiti e contraddizioni. A questo processo di demolizione normativa non sfugge nulla. Nemmeno le immagini religiose. Nemmeno i simboli del “sacro”.
Il dovere della provocazione
La religione, infatti, da secoli è stata usata come arma per colpire – discriminando, limitando la libertà e persino uccidendo – le persone Lgbt+. In un processo di messa in discussione dei simboli della norma eterosessista, dunque, l’attacco al “sacro” non è solo un aspetto della libertà di espressione (quella stessa libertà che certi cattolici vogliono difendere da ipotetiche minacce, come quelle attribuite alla legge Zan), ma diventa anche dovere. Il dovere di difendersi, provocando se necessario, da attacchi esterni e che vedono nel potere religioso nemico principale non solo della nostra causa, ma della nostra umanità in primo luogo, nonché della nostra stessa sopravvivenza.
Gesù al pride: non è blasfemia
Andrea Maccarrone, ex presidente del Circolo Mario Mieli e attivista Lgbt+ di lungo corso – ieri ha solo messo in atto questo processo di decostruzione, rilettura e demolizione di un modello sovradeterminante. Non è nuovo a questo tipo di iniziative. Ovviamente, sapeva che avrebbe attirato delle critiche e (conoscendolo) forse era ciò a cui mirava. Per stanare il “nemico” ed esporlo di fronte alle sue stesse ipocrisie. E infatti non sono mancati i post indignati, qua e là sui social, dei soliti cialtroni dell’ultradestra che si scandalizzano per quella che chiamano blasfemia. Senza voler vedere – o senza capirlo, per un limite consustanziale all’ideologia sposata – che quella blasfemia è un atto politico.
Un atto politico uguale e contrario a…
Ed è un atto politico, uguale e contrario, a chi va in piazza urlando di essere donna, madre e cristiana agitando un’identità contro categorie sociali specifiche (in primis, contro la comunità arcobaleno). È un atto politico che risponde a chi va in parlamento a baciare crocifissi e a scomodare cuori immacolati di vergini di ogni ordine e grado, e che poi non ha problemi a lasciare che le persone restino in mare, rendendo fuorilegge la solidarietà. A un certo punto del pride di ieri Maccarrone, insieme a Porpora Marcasciano, ha inscenato una pietà che spiega benissimo cosa ha fatto il potere religioso, forte dei suoi simboli, alla nostra comunità. Alle persone come noi.
Stanare l’ipocrisia di chi si scandalizza
Il suo è un atto politico di disvelamento. Ricorda, a chi vede, da dove arrivano secoli di violenze e riduzione di libertà. E stana l’ipocrisia di chi si scandalizza. Ma che poi non ha nessun problema a utilizzare quella stessa immagine e ciò che evoca per scopi altrettanto politici. E lo fa con la sua immagine sacra per eccellenza: la figura di Gesù crocifisso. Se non si voleva che si giocasse col “sacro” bastava non usare la religione per i certi scopi. Meschini, per quel che mi riguarda. Il pride non deve rassicurare certa gente. Il pride manda a dire a queste persone che non siamo più disposti a tacere.