È una storia difficile da raccontare e a maggior ragione da vivere, quella che vede come protagonista Marco (nome di fantasia), 13 anni, che il Tribunale per i minori di Venezia ha deciso di allontanare dalla sua famiglia. Una storia, da quello che si deduce dai documenti che Gaypost.it ha potuto leggere, di un divorzio difficile tra i genitori, di denunce della madre nei confronti del padre e altri familiari per presunti abusi sul ragazzo (accuse da cui l’uomo è stato assolto in primo grado e di cui ora dovrà rispondere in appello), di tentativi di terapie psicologiche andati male. Una situazione che è sfociata, ora, in un provvedimento del Tribunale che ha dichiarato “entrambi i genitori decaduti dalla responsabilità genitoriale” con un decreto in cui il giudice cita alcuni elementi che hanno sollevato polemiche e stupore.
Citando una perizia successiva, più avanti nel decreto, il giudice scrive: “Inoltre nella relazione con i pari e gli adulti è aggressivo, provocatorio, maleducato, usa un linguaggio anch’esso provocatorio e molto scurrile, disturba gli altri, usa la menzogna, tende a fare l’eccentrico (tende in tutti i modi di affermare che è diverso e ostenta atteggiamenti effeminati in modo provocatorio)“.
Secondo l’avvocato Francesco Miraglia, specializzato in questioni minorili e molto noto, sarebbero proprio queste le ragioni che hanno spinto i giudici di Venezia a decidere che Marco non deve più vivere con la sua famiglia e deve, invece, essere affidato ad una comunità terapeutica. Teoria che il legale ha confermato a Gaypost.it che lo ha contattato.
Va detto, però, che un’attenta lettura del decreto, suggerisce un quadro molto più complesso. Nel corso degli anni, a partire dal 2010, Marco è stato sottoposto ad un percorso di “ripresa graduale dei rapporti con il padre” (assolto in primo grado dall’accusa di abusi). Viene descritto come un ragazzo con “problematiche psicorelazionali” che i genitori hanno “usato come strumento del conflitto di coppia”. La madre, sempre secondo i giudici, non sarebbe in grado di “rendersi conto delle problematiche del figlio” se non come “conseguenza dell’abuso del padre” di cui rimane convinta.
Difficile dire se ha ragione l’avvocato a parlare di discriminazione o se i giudici hanno commesso un paio di scivoloni volendo comunque descrivere una situazione di disagio più complessa e generale. Certo è che leggere “atteggiamenti effeminati” con una connotazione negativa e vedere citare lo smalto alle unghie e dei brillantini sul viso come prova di una “difficoltà di identificazione sessuale” rievoca pregiudizi e stigmi che non vorremmo leggere, in provvedimenti di un tribunale. Per non parlare dell’antico quanto errato adagio che attribuisce a rapporti morbosi con le madri l’origine dell’omosessualità maschile. Non ultimo, ci chiediamo: se mai davvero Marco dovesse andare in una comunità terapeutica (al momento è ancora con la madre), come sarebbe accolto dai suoi coetanei, verosimilmente con disagi come se non più gravi dei suoi, se venisse etichettato come “effeminato”?
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