Storie

L’unico modo per disobbedire al mondo che odiava la mia omosessualità, era disobbedire al mio corpo

Le storie personali, più delle teorie o dei discorsi degli esperti, sono quelle che riescono a fa conoscere la realtà a chi la ignora e, per questo, la teme. Riceviamo e pubblichiamo la storia di Michele (che ringraziamo per avercela raccontata) e della sua anoressia, la risposta al rifiuto della sua omosessualità da parte del mondo esterno.

Nella vita di tutti c’è un prima e c’è un dopo. Tra questi due luoghi dell’essere si posiziona qualcosa che ci ha segnati per sempre. Qualcosa che ci ha cambiati per sempre. Anch’io ho un prima e un dopo, e tra il mio prima e il mio dopo c’è lei. Lei che non è una persona, ma ha gli occhi di tutte le persone che ti guardano, lei che non ha una bocca ma corrisponde alla somma di tutte le voci che ti urlano nel cuore.
Lei, l’anoressia.

Mi sono ammalato di anoressia a diciassette anni. Frequentavo il liceo classico di un paese in provincia di Bari, Conversano.  Ero uno studente modello, molto timido. Il mio silenzio, però, non era un silenzio schivo. Tacevo per ascoltare. Avevo una grande curiosità delle cose del mondo.
Capii di essere omosessuale quando avevo cinque anni, un giorno in cui mio padre mi portò dal barbiere. La pressione delle sue mani sulla mia nuca, quando doveva rasarmi le basette, fu come una carezza che mi fece vibrare il corpo. Tremai, come si trema davanti a una rivelazione. Fu meraviglioso.
Crescendo, disimparai quella felicità, perché il mondo intorno mi diceva in tutti i modi che si trattava di un’idea sbagliata di felicità. Diventai insicuro. Avevo pochissimi amici, soprattutto ragazze. Passavo le mie giornate a guardare gli altri dalla finestra. Assistevo alla vita, anziché compierla.

Mangiavo tantissimo, per nascondere l’anima fragile in un corpo smisurato. A quattordici anni pesavo cento chili.  Ero preda facile dei bulli del paese. Venivo insultato e aggredito quotidianamente perché ero obeso e diversamente uomo. Non capivo cosa li turbasse di me: io non potevo vedermi da fuori, ma loro sì. E la mia diversità, col tempo che passava, diventava sempre più evidente. Ero diverso perché non ero come loro. Col tempo ho pensato che si sentissero quasi traditi, per il semplice fatto che non fossi come loro.
Per anni vissi in quel corpo. Poi, un giorno, decisi di annientarlo.
Ero stanco degli insulti, della paura, dell’odio. Ero anzi contagiato da quel buio.

Cominciai a dimagrire attraverso  un’attività fisica esagerata. Due, tre ore di corsa al giorno. Tutti i giorni. Eliminai dalla mia dieta pasta, carne, uova, formaggi, pane. Mangiavo solo cereali e frutta. Persi cinquanta chili in sei mesi. Due chili a settimana. Arrivai a pesare quarantacinque chili. Non dovevo assumere più di trenta grammi di cibo solido a pasto. Controllavo le calorie con ossessione chirurgica: anche le due kcal di una gomma da masticare senza zucchero dovevano essere smaltite.

Ogni sabato il mio appuntamento con la bilancia della farmacia. Quei tagliandi che collezionavo come prove del mio graduale suicidio. L’adrenalina che saliva alla lettura del peso. L’estasi.
La mia vita era una prigione di numeri. Dovevo perdere, perdere, perdere.
Perdendo tutto quel peso, il mio corpo dimenticava le ragioni del suo dolore. Non desiderava più. L’unica maniera per obbedire alla legge del mondo, che odiava la mia omosessualità, era disobbedire al mio corpo.
Era come un abbaglio di felicità. L’unico comportamento che potevo attuare per non sentirmi sbagliato.

Poi, una notte, aprii gli occhi. La ricordo benissimo, quella notte. Era d’estate. Luglio aveva disseccato le strade, come arterie di un corpo ormai privo di sangue. Mi svegliai di colpo nel mio letto. Provai un dolore infinito al centro della pancia. Avevo fame, ma non riuscivo a mangiare. Il mio corpo era così abituato all’astinenza, che non era più in grado di  accogliere cibo. Il mio stomaco era diventato grande quanto il nocciolo di una pesca.

In quel momento pensai alla morte. Vidi, come in un sogno lucido, le immagini del mio funerale. Vidi le lacrime di mia madre sul mio corpo freddo e immobile. E decisi di vivere. Decisi che quel dolore non poteva prendersi me e non aveva il diritto di ridurmi a un silenzio senza vie di uscita. Decisi che avrei cominciato a vivere davvero, lottando per la felicità e per la libertà.
Quella notte mi alzai dal letto, attraversai il corridoio  al buio, da solo, cercando di orientarmi tendendo le mani in avanti, come un bambino che muove i suoi primi passi. Arrivai in cucina, aprii il frigorifero. C’era un dadino di formaggio, brillava come una pepita d’oro. Lo presi in mano, lentamente. Mi avvicinai alla finestra, spiai le luci dell’alba che iniziavano a colorare il cielo.
Mangiai quel dadino di formaggio, e decisi che quel mattino sarebbe stato anche mio.

Michele Ciavarella

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