Il testo, a firma Moises Kaufman, svolge un accurato lavoro filologico: la vicenda è raccontata con le esatte parole dei protagonisti. Non esiste possibilità di appellarsi all’eccesso drammaturgico quando vediamo il meschino e crudele Marchese di Queensberry – un impeccabile Ciro Masella – rivendicare la sua grottesca crociata contro Wilde: minacce, bouquet di ortaggi (non è difficile immaginare quali), ripetuti tentativi di interrompere le prime degli spettacoli, tutto questo per difendere suo figlio, Lord Alfred Douglas – interpretato da Riccardo Buffonini – perfetto nel dare corpo a tenerezza e ambiguità di quel Bosie che Wilde amò in modo totalizzante (basti pensare alla sua celebre definizione dell’amore “che non può pronunciare il suo nome”) salvo poi ritenerlo il responsabile della sua rovina.
È il 1894: il marchese, chiamato alla sbarra per diffamazione, conferma di aver diffuso un biglietto con scritto “Oscar Wilde si atteggia a sodomita” [sic]. Non osa accusarlo di essere qualcosa di “tanto orribile”: sembrarlo è già un sintomo di deviazione, e nel puritanesimo vittoriano è sufficiente il sospetto per rovesciare i ruoli. L’arte e la persona stessa di Wilde diventano oggetto del dibattimento, in quello che diventa un processo contro il “più terribile di tutti i reati”. La società inglese si riversa tutta nel tribunale, golosa di assistere alla caduta del decadente, di puntare il proprio dito ipocrita contro “l’altro”, di vomitare il proprio odio al grido di “uccidete quel finocchio!”.
Oscar potrebbe lasciare il paese per sottrarsi all’arresto, invece decide di rimanere e sceglie di lottare in prima persona perché “accettare passivamente i valori della propria epoca è la forma più orrenda di immoralità”. La sua intensa difesa spinge la giuria a uno stallo, ma ormai tutti gli hanno voltato le spalle. È nella risposta a chi lo abbandona uno dei passaggi più significativi sul piano della rivendicazione: “Quello che tu chiami vizio, è la cosa giusta per me”. Semplicemente. Il terzo processo si chiude con le violente parole di un giudice secondo il quale “chi è capace di simili atti è sordo a ogni sentimento di vergogna”, e con la scelta di un Paese che preferisce “un po’ di bigotteria a troppa tolleranza”.
Come non sempre accade, lo spettatore si trova del tutto immerso nella vicenda indipendentemente dal proprio vissuto personale ed è costretto a scoprire quanto, più di un secolo dopo, siano cambiati alcuni termini, ma l’odio sotteso sia ancora presente. “Un giorno vi vergognerete!” chiosa Wilde prostrato nell’ultima disperata difesa che sembra parlare direttamente all’oggi fuori dal palcoscenico. Atti osceni ha il merito, al di là del pregevole documento storico, di interrogare direttamente il presente. Se la storia ha riabilitato l’autore per manifesta grandezza, rimane l’amara convinzione che il giorno della vergogna per l’omofobia che uccide sia ancora lontano.
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