Il tuo romanzo: una storia di un coming out in un contesto che non prevede l’omosessualità. Quanto c’è di te stesso e del tuo rapporto con la tua famiglia?
In questa storia c’è di mio tanto quanto c’è dei miei amici del Sud, dei conoscenti di Milano che vengono da Puglia, Campania, Sicilia, ma anche dalle province del nord (e sono tanti). Tutti uniti nel segno della sfiga, delle scappatelle notturne per non dare nell’occhio, nell’attesa di fuggire e di scoprire noi stessi in un futuro migliore, altrove, ovunque non ci siano parenti che puoi ferire con la naturalezza dei tuoi istinti. Io non ho avuto “problemi”. Ho avuto tante rotture di cazzo, come qualunque gay e qualunque lesbica con genitori all’antica, impauriti dai pettegolezzi. Ho dovuto evitare questo e quello, ho dovuto mentire, omettere, fingere stati d’animo e occultarne altri, e mi sono sentito molto solo quando per la prima volta ho sofferto per amore e non avevo nessuno con cui parlarne. Posso dire, di certo, che c’è tanto del mio rapporto con mamma e papà, del modo in cui ho sempre pensato che l’amore non fosse la cosa più importante del mondo, ma che capire noi stessi, cosa desideriamo davvero per sentirci appagati e trovare un equilibrio sono cose altrettanto fondamentali.
Penso che la famiglia sia l’impalcatura iniziale su cui costruiamo la nostra identità, il modo con cui ci rapportiamo con la società, con il partner, con il lavoro e gli amici. Il nostro carattere è inevitabilmente un impasto di esperienze e ricordi, tra i cui ingredienti ci sono anche la famiglia, il modo in cui i genitori litigavano, le competizioni fraterne, l’affetto o l’ostilità dei nonni. Noi siamo il risultato della nostra famiglia, e al Sud la famiglia è qualcosa che non ti molla mai, è più partecipe, perciò continua a influire anche da adulti. Quindi la morale di questo romanzo, Dillo tu a mammà, è che se non c’è un buon rapporto con la famiglia è più difficile avere un buon rapporto con se stessi. È più difficile riuscire a essere felici.
Quali sono i modelli letterari o cinematrografici ai quali ti sei ispirato per la creazione della tua storia?
Di sicuro il cinema mi ha ispirato più della letteratura. Non saprei darti neppure una risposta precisa: amo le commedie in generale, da Io e Annie a L’età barbarica, ma anche i vecchi film che mi hanno travolto e cambiato, come Improvvisamente l’estate scorsa. Ho bisogno di immagini, di pause, di rabbia negli occhi, di colori. È questo che mi fa scrivere.
«Quando amavo, da giovane e da meno giovane, avevo spesso l’impressione che il mio sentimento non fosse abbastanza potente, ben eretto su un’impalcatura solida, sufficientemente maturo. Quando ci ragionavo, il pensiero volava a mia madre, al suo supporto mancato in un’età che lo pretendeva. È come se quell’amore che non mi ha trasmesso, o che mi ha rifilato freddo e duro, non avesse fatto germogliare il mio. Forse non è stato Peppe a infliggermi il primo “no”. Forse sono rimasto scottato da mia madre». Ma ci tengo a dire che questo romanzo è anche e soprattutto una commedia, che affronta tanti temi con leggerezza, ironia, cercando di strappare una risata tra una riflessione e una domanda.
In relazione al contesto culturale che ti trovi a vivere e in base a quello che vivi nella tua quotidianità, come vedi la situazione dei diritti delle persone Lgbt nell’Italia di oggi?
Mah, se ne parla tanto, ma ci perdiamo ancora in un bicchier d’acqua. Le unioni civili, Maria De Filippi, il cinema e la letteratura sempre più moderni, la valanga di telefilm che strizzano l’occhio agli omosessuali con quelle scene di sesso tra bonazzi, e l’arcobaleno all’Eurovision, ok. Ma qua non possiamo ancora passeggiare mano nella mano per strada. Che libertà abbiamo? Di scopare in casa nostra e radunarci nei bar a tema? Io non mi sento libero. Mi sento meno ostacolato di un tempo, ma non libero.
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