“La convivenza dello straniero con una cittadina italiana riconosciuta con contratto di convivenza disciplinato dalla legge (quella sulle unioni civili e le convivenze di fatto, ndr) è ostativa all’espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione”. Lo ha deciso la Cassazione con una sentenza pronunciata ieri in cui la Prima Sezione Penale, applicando la legge cosiddetta Cirinnà, equipara la condizione di convivente (o unito/a civilmente) con quella di coniuge estendendo quindi ai partner non comunitari di una convivenza o di una unione civile il diritto a non essere espulsi come pena alternativa al carcere.
La Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino marocchino, colpito da provvedimento di espulsione mentre si trovava in carcere per avere commeso un reato e privo di permesso di soggiorno spiegando che “l’applicazione normativa non può ignorare” la legge sulle unioni civili “giustamente accolta dall’opinione pubblica, dagli operatori e dai teorici del diritto come disciplina epocale, con la quale sono state riconosciute dall’ordinamento statuale e disciplinate positivamente le unioni tra persone dello stesso sesso e, con esse, anche quelle di fatto tra eterosessuali”. L’uomo, un 28enne, convive con una donna italiana e questo, per la Corte, gli vale il riconoscimento dello status familiare previsto dalla legge.
E mentre c’è già chi parla di legge salva-clandestini (quella sulle unioni civili, manco a dirlo) corre l’obbligo di ricordare che lo stesso principio si applica ai non comunitari sposati con cittadini italiani. Si potrebbe commentare che il matrimonio salva i clandestini tanto quanto le unioni civili e le convivenze, ma nessuno, per questo, mette in dubbio l’esistenza dell’istituto matrimoniale.
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