Parliamo di Sense8? Parliamone. E come si dice in questi casi: attenzione, questo articolo contiene spoiler. È uscita il 5 maggio, su Netflix, la seconda stagione e ammiratori e ammiratrici commentano entusiasticamente, evocando l’arrivo della terza e salutando la serie di Lana e Lilly Wachowski – le due sorelle transgender già note per l’ideazione della saga di Matrix – come una delle migliori mai prodotte per il piccolo schermo. Dal punto di vista della gay community, poi, il telefilm è un vero e proprio gioiello per il suo contenuto dall’elevato valore militante. Valore ora manifesto, ora celato tra situazioni e nell’avvicendarsi di una trama sempre più complessa e avvincente.
All’invito a parlare della sua sessualità, perché la giornalista “vuole capire”, il protagonista della scena risponde così: «Tu non vuoi capire proprio niente, perché le etichette sono all’opposto della comprensione» e in questo passaggio si sovrappone l’immagine, tenera e vigorosa, di Nomi Marks (il personaggio MtoF che vive una storia con Amanita). La scena prosegue mentre la giornalista lo incalza ancora sulla sua vera identità. «Vuoi dire io chi sono?» chiede ancora Lito, mentre tutti gli altri “senzienti” si avvicendano, entrando così nella narrazione, «vuoi dire da dove vengo? Cosa faccio, cosa sono? Vuoi dire cosa vedi? Vuoi dire chi amo? Vuoi dire cosa ho perso? Io chi sono? Immagino di essere esattamente uguale a te. Né meglio, né peggio. Non c’è nessuno che sia stato o mai sarà esattamente uguale a te o a me». Un poderoso inno alla diversità come valore e all’uguaglianza come obiettivo, a ben vedere.
Il coraggio. È una parola che torna di continuo, nella seconda stagione. Quasi il suo motivo ispiratore. Ed è in nome di esso che emergono i momenti più intensi e le frasi più belle. Le parole che ci pongono di fronte a tutte le nostre paure: «Non puoi vincere una lotta proteggendo te stesso», rivela Sun quando le chiedono se è disposta a rischiare la vita per sconfiggere i loro nemici. E non è forse, questo, quel respiro che manca quando decidiamo di rivelare noi stessi? Decidiamo di smettere di proteggere il nostro castello di bugie e di non detti per qualcosa di più grande: la pienezza della nostra vita. «La paura non ha mai risolto niente», continua Wolfgang. E poi ritorna lo splendido personaggio di Nomi, che dà un senso profondo e politico, a quel coraggio quando dice: «La tua vita può essere definita dal sistema o dal modo in cui sfidi il sistema». Non è quello che chiamiamo “autodeterminazione”, quel ribellarsi alla norma?
Tutti questi elementi – ora palesi come le ambientazioni nei vari pride, da San Francisco a San Paolo del Brasile, ora più indiretti – si sposano a tematiche altre, come quella della solidarietà femminile di fronte alla violenza di genere, come nel rapporto tra la splendida Sun e le sue compagne di cella. O la critica sulla povertà e alle diseguaglianze sociali, come avviene per il filone incentrato su Cafeus. Temi che ci vengono restituiti attraverso una fotografia, delicata e allo stesso tempo potente ed evocativa, da una regia che si trasforma in poesia dell’immagine e dal supporto di una colonna sonora capace di vette di intenso lirismo. Un’opera non solo da vedere, per il gusto della narrazione, ma in cui ritrovare il senso di battaglie che sono le nostre. Per rispecchiarsi in qualcosa di più di un modello positivo: un modello in cui essere diversi è colonna portante e non più eccezione da comprendere e valorizzare. Un passo avanti notevole.
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