Si era unita civilmente proprio due mesi prima quando Elisa (nome di fantasia), 40 anni, è stata licenziata dal lavoro di barista che svolgeva da dieci anni nello stesso locale. Nonostante nella lettera ci fosse scritto che il licenziamento era dovuto alla crisi economica ed al calo degli incassi, lei non ha mai avuto dubbi. Per Elisa il suo datore di lavoro l’aveva cacciata per via dell’unione civile che aveva suscitato un certo clamore. Era ottobre del 2016, la legge sulle unioni civili era entrata in vigore da pochi mesi e le prime cerimonie facevano notizia.
Così la donna ha impugnato il licenziamento, con il sostegno dell’avvocato Francesco Gobbi, e si è rivolta al tribunale. E lo scorso 7 marzo è arrivata la sentenza: Elisa ha ragione, il licenziamento è illegittimo. La giudice Tania de Antoniis ha disposto non solo il reintegro nel bar da cui era stata licenziata, ma ha condannato il datore di lavoro a risarcire Elisa degli stipendi non percepiti per tutto l’anno in cui non ha lavorato.
Nella sentenza, in realtà, secondo quanto riporta la stampa locale, non si fa cenno all’orientamento sessuale della donna. La motivazione della condanna è scritta nella legge Fornero: non si può licenziare un dipendente nell’anno successivo al matrimonio, circostanza estesa ad una unione civile dopo l’approvazione della legge Cirinnà. Elisa, dunque, tornerà a lavorare e sarà risarcita del danno subito.
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