“La battaglia dei sessi” è stato uno degli eventi sportivi più importanti della storia del secolo scorso; non solo una partita di tennis, bensì uno scontro all’ultimo colpo di racchetta per ottenere una equa e riconosciuta parità salariale tra giocatori e giocatrici di tennis. Ad accettare la sfida, furbescamente lanciata dall’ex campione cinquantenne Bobby Riggs (Steve Carell), fu Billie Jean King (Emma Stone), campionessa in carica, donna che, sulle scie della rivoluzione sessuale del sessantotto e del femminismo dilagante, si schierò in prima linea per difendere i diritti delle donne.
L’intero film è giocato sugli opposti: sulla morigerata purezza di King, e sulla malsana dipendenza di Riggs, sulla fragile insicurezza di una donna combattuta e sulla spavalda e superba spregiudicatezza dell’uomo. Quando King si allena, Riggs si intrattiene in comici siparietti sul campo, quando lei intraprende una nuova esperienza sentimentale, lui si separa dalla moglie. Si potrebbe proseguire con un’analisi analoga ripercorrendo tutte le tematiche del film, ciò dimostra quanto la sua struttura sia elementare e basilare: “La battaglia dei sessi” divide l‘uomo dalla donna e seguendo questa separazione categorizza ogni essenza di opposizione archetipica.
Con l’avanzare della narrazione e l’avvicinarsi del fatidico scontro sul campo da tennis non cresce solo la tensione, aumentano anche le implicazioni emotive. La posta in gioco si alza per Billie Jean: una sconfitta significherebbe deludere uno stuolo di donne inebriate dal profumo dell’emancipazione. Significherebbe perdere credibilità e lasciarsi travolgere da un’onda di derisione.
Cosa dicono i media? Ci sono scandali nell’aria, verità scomode da nascondere? Sono innumerevoli, tanto per Riggs, dipendente dal gioco, quanto per King che da qualche tempo ha iniziato una relazione con una donna: Marilyn Barnett, la parrucchiera del team di tenniste di cui fa parte. L’improvvisa ventata di novità portata dalla nuova relazione, sconvolge Billie Jean, le fa perdere concentrazione, la distoglie dal suo obiettivo principale. La paura dell’essere scoperta, di dover dare spiegazioni e dover dichiarare apertamente la sua nuova situazione sentimentale la paralizza. Ed ancora una volta tornano le stesse insistenti e attanaglianti domande: Cosa diranno i media? Cosa penseranno tutte le donne che credono nella causa? E gli uomini? Non sarà fin troppo facile per loro sfruttare la scomodità di un amore percepito come “deviato”?
I registi danno ampio spazio alla narrazione della storia d’amore. La poggiano sul piatto della bilancia opposto a quello su cui grava il peso del match e riescono a trovare uno stabile equilibrio tematico. Per quanto la storia regga e i 120 minuti non risultino eccessivi, ciò che delude è la scelta registica, lineare, piatta, poco originale. Si nota una certa estraneazione, un coinvolgimento sempre più diradato e flebilmente accennato. Qualche strizzatina d’occhio intervallata da un paio di frasi ad effetto sulla tematica LGBT non sono sufficienti ad aggiungere pepe ad un film che di straordinario sembra avere solo la vicenda di partenza.
“La battaglia dei sessi”, purtroppo, rischia di diventare uno di quei film da rotocalco patinato, uno di quelli che più che raccontare un’epoca finirà per trasformarsi in un incompleto e trascurabile dipinto a tinte tenui di una storia che per essere raccontata necessiterebbe di più coraggio e di più intraprendenza. Un buon cast e una manciata di recensioni positive sulle riviste scandalistiche non basteranno ad edulcorare la mediocre piattezza di una narrazione priva di enfasi.
In conclusione, quando si giunge al match point definitivo, quello tra realtà e finzione, tra storia vera e cinema, il punto decisivo va a vantaggio della storia. “La battaglia dei sessi”, quella vera, quella trasmessa in diretta, in mondovisione nel 1973 non può essere replicata veridicamente da due registi che, provenienti dal cinema indipendente, si ritrovano spaesati giunti a Hollywood quasi per caso.
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