Sembra di trovarsi al centro di una strategia ben collaudata, anche se forse inconsapevole: quella di un attacco su tutti i fronti rispetto al concetto di identità di genere, che ha come riflesso incondizionato (ma è poi davvero un automatismo?, viene da chiedersi) il vittimismo di chi viene chiamato alle proprie responsabilità per ciò che scrive o dice pubblicamente. Lo schema è il seguente: un personaggio con una certa visibilità dice qualcosa contro la legge Zan, o contro l’identità di genere o entrambe le questioni. Segue la reazione, il più delle volte civile seppur vibrante e indignata, di chi commenta sul web. Si risponde facendo le vittime. Di cancellazione e violenza. Ma è davvero così?
Partiamo da un caso abbastanza emblematico: qualche giorno fa, Fabio Canino scrive un tweet rivolgendosi ad alcuni personaggi politici tra cui Valeria Fedeli, Valeria Valente e Andrea Marcucci. Le loro recenti dichiarazioni, infatti, fanno pensare che si stia creando un fronte avverso alla legge Zan dentro lo stesso Pd. Chi vuole cambiare il testo, chi invece vuole mediare con la Lega. Ciò farebbe arenare definitivamente il ddl, fermo al Senato. Il noto presentatore dunque chiede: «Su quale parte del nostro corpo volete mediare? Avete votato il #ddlzan e adesso volete trattare per giochi di potere. Presto ci saranno le elezioni capitani coraggiosi». Segue una levata di scudi, proprio da parte di alcuni di quei personaggi politici chiamati in causa.
L’ex ministra dell’Istruzione lo apostrofa duramente: «La invito a non offendere, non irridere e a informarsi meglio sulle posizioni, le proposte e la storia politica e personale di chi una legge contro l’omotransfobia la vuole davvero». Marcucci minaccia addirittura querela (con tanto di like di Fedeli), dopo aver scritto: «Il suo insulto si commenta da solo». E Valente, in un momento di confusione semantica: «Gravissima tanta aggressività da chi sostiene una legge contro la violenza. Di quali giochi di potere saremmo protagonisti è dato sapere? O è lecito lanciare accuse tanto pesanti senza alcun riferimento? È il modo peggiore per difendere una legge di civiltà, diritti e libertà».
In quale punto del tweet di Canino si offende e si deride? Egli si limita, per lo più, a inchiodare a responsabilità politiche precise dei/lle rappresentanti delle nostre istituzioni che, con le loro dichiarazioni più recenti e con l’intenzione manifesta di mediare sul ddl Zan, mettono a serio rischio l’approvazione della legge. Canino è sicuramente sferzante e sarcastico, nella parte finale. Ma la violenza, la derisione, l’aggressività sono altra cosa. Basterebbe – qualora non si abbia dimestichezza col fenomeno – consultare un dizionario della lingua italiana. Anche se è grave pensare che chi dovrebbe votare leggi per il bene della società tutta, testi anche complessi nella loro formulazione, abbia poi carenze così vistose con il lessico di base. Eppure…
Torniamo a qualche mese fa. Paola Concia aveva rilasciato un’intervista su Avvenire in cui parlava della necessità di tornare sul testo di legge, togliendo la parte relativa al “sesso”. Sia ben chiaro, il problema non è discutere su un provvedimento. Il problema è farlo adesso, quando è già stato approvato alla Camera e ora attende l’ok definitivo al Senato. E anche cambiare una virgola, a questo punto, significherebbe ricominciare tutto da capo. Cioè, mandare in soffitta una legge che attendiamo da decenni. Per quell’intervista, che faceva il gioco delle destre, Concia è stata aspramente criticata. La stessa ex parlamentare, di fronte alla pioggia di commenti, ha pubblicato un lungo post in cui si può leggere: «Si è scatenato l’inferno, sono stata aggredita da chi mi ha sempre odiata perché non sono “pura”. Ho ricevuto una sequela di insulti». Eppure, per quelli che sono i commenti di cui ho memoria, la gente si è limitata al diritto di critica…
Ancora Valeria Valente, il mese scorso, ha condiviso una fotografia di Paola Concia, rilanciando l’intervista di cui sopra. Anche in questo caso il web si è mosso, andando a commentare. Il tenore dei commenti indirizzati sia alla senatrice del Pd, sia all’ex parlamentare, è di fronte agli occhi di chiunque. Di fronte alle proteste, Valente ha sentito la necessità di scrivere un commento, in cui possiamo leggere queste parole: «…non credo sia nello spirito di questa legge aggredire o offendere in maniera violenta chi non la pensa esattamente come forse la maggioranza di chi l’ha scritta e voluta». Eppure, anche in questo caso, ciò che viene bollato come offesa e violenza sembra essere, in linea generale, diritto di critica. Anche aspra. Sta nel gioco della democrazia. E chi fa parte di un partito che ha l’ardire di definirsi “democratico” dovrebbe saperlo. Eppure si ricorre ancora una volta al vittimismo.
Il clima, insomma, sembra abbastanza avvelenato. La legge Zan viene attaccata sulla questione del “sesso” e sull'”identità di genere”. Le persone transgender sono al centro di una vera e propria campagna screditante, un attacco diretto contro le loro identità, le loro vite e la loro stessa dignità. Di fronte a simili tentativi di demonizzazione, non si sentiva di certo la necessità di un recente articolo dell’Agenzia Dire, a firma di Silvia Mari, in cui si attacca la transizione di Elliot Page. Riporto le precise parole della giornalista: «È la diminutio del femminile sotto mentite spoglie. È il rifiuto delle donne. Che siano uomini con le sembianze di donna che tengono il pene, che siano Ellen con la vagina che mostra la mastectomia come un bel ragazzetto. È la morte delle donne. Senza spargere sangue ma non con meno violenza».
L’articolo in questione ha mosso diverse reazioni. Di fronte a tanta enormità, diverse giornaliste di area femminista – tra cui Giulia Blasi, Jennifer Guerra, Benedetta Pintus e molte altre – hanno firmato una lettera aperta alla direzione di Dire, scrive questo sul pezzo incriminato: «Un articolo che viola le regole deontologiche nei temi e nei toni, di una violenza inaudita» e caratterizzato da «passaggi irrispettosi nei confronti dei percorsi di transizione e da una non celata transfobia». Anche Non una di meno Roma prende posizione: «Provocano rabbia e dolore anche tra le donne cis che insieme alle persone trans lottano per costruire percorsi di libertà e autonomia dalla violenza di chi, come la giornalista in questione pretende di dettare le regole su genere, sessualità, affettività e desiderio».
Travolto dalle critiche, l’articolo è stato comunque difeso dal direttore Nico Perrone. Che dichiara: «Chiariamo subito una cosa: l’opinione della giornalista Silvia Mari rispecchia quella degli altri 90 giornalisti dell’agenzia Dire? No, non ho fatto un’inchiesta interna ma posso dire che sicuramente è minoritaria. Per questo bisogna mettere a Silvia Mari la mordacchia e impedirle di dire la sua? Non lo farò mai. In tutta la mia vita professionale, e i tanti che mi conoscono possono testimoniarlo, mi sono sempre speso per la libertà di pensiero contro ogni censura». Peccato che l’indignazione per un titolo offensivo e parole ancor più problematiche siano state una reazione a qualcosa che è stato pubblicato e senza censura alcuna. Anche in questo caso, la replica viene bollata come tentativo di prevaricazione.
Adesso, va da sé che nel web si può incappare in flame, shitstorm e haters. Sono le cosiddette regole del gioco. Soprattutto quando hai una dimensione pubblica. Ciò non giustifica, ovviamente, quei commenti che scadono nell’insulto, nell’odio o in fatti ben più gravi. Ma metterli sullo stesso piano dell’indignazione di chi si sente bersaglio di un clima avvelenato è un atto di disonestà intellettuale. Perché confonde i piani del discorso. E il discorso è che c’è in gioco un tentativo di affossare una legge che tutelerebbe una categoria vulnerabile: le persone transgender.
Ricordiamoci ancora che l’attacco alla legge non è nel suo impianto generale, ma verte proprio sull’identità di genere. Attraverso il solito castello di mistificazioni e disinformazione che ieri, ai tempi delle unioni civili, cancellava le famiglie tradizionali. Mentre oggi cancellerebbe le donne. La categoria oggi sotto attacco – la comunità transgender – prova insomma a difendersi (insieme ad altre realtà ad essa alleate, come le femministe intersezionali). Non solo dalla transfobia dilagante, ma anche da una rappresentazione che la descrive come minaccia per l’ordine pubblico e anche per lo stesso ordine naturale. Che poi, spesso, ad attaccare le persone transgender siano personaggi benestanti, borghesi e in una posizione di potere dovrebbe lasciar riflettere. Anche sulle motivazioni che li spingono a cavalcare certe posizioni, facendo il gioco delle destre più becere. Ma questa è un’altra storia. Ugualmente triste, ahinoi.
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