“Ne avete di finocchi in casa?”, chiede il dottor Tanzanella di “Sua eccellenza si fermò a mangiare” (1962). La risposta che riceve non è quella ad una domanda sul menù. Anche Totò si prestava alla peculiare raffigurazione dell’omosessualità maschile tipica di almeno due decenni di cinema italiano, soprattutto nelle commedie.
Un’immagine che oggi appare per molti versi lontana, ma di cui gran parte della comunità LGBT* sconta ancora le conseguenze.
A firmare la regia è Andrea Meroni che nel corso di una lavorazione durata all’incirca un anno e mezzo ha costruito pezzo per pezzo questo interessante puzzle.
Il film si articola infatti in più di venti interviste, incontri con tutte le personalità che ruotano attorno al mondo della pellicola. Registi e sceneggiatori, come Enrico Vanzina, costumisti ed attori, Lino Banfi e Leo Gullotta su tutti. Ma anche i suoi critici, tra cui Franco Grattarola e Maurizio Porro. Accanto alle loro, le voci degli attivisti, come Giovanni Dall’Orto e Porpora Marcasciano. A tutti il compito di provare a tracciare l’identikit dell’omosessuale nel cinema popolare italiano.
I volti che generazioni di ragazzi gay hanno avuto davanti agli occhi per riconoscere se stessi sono raccontati tutti, dal conte Franco Caracciolo ai protagonisti del “Vizietto”.
Questo attento lavoro di ricerca – dopo una breve anteprima al Sardinia Queer Fest – ha visto la luce alla partecipata presentazione del 16 dicembre scorso alla Casa dei Diritti di Milano. È lì che il doc ha potuto mostrare i colori sgargianti dei fotogrammi, l’ironia che racconta il mutare dei tempi, e la competenza delle analisi.
Un lavoro in cui molti hanno creduto. È stato infatti possibile grazie a decine di finanziatori privati sulla piattaforma Produzioni dal Basso, e al contributo del CIG di Milano e della sede milanese di Agedo.
(continua dopo il video)
Alla Casa dei Diritti ci si è interrogati su motivi e conseguenze di una tale rappresentazione, motivo di umiliazione per molti ma che forse – ha suggerito Riccardo Tromba dei Sentinelli di Milano – non faceva altro che compiacere e rappresentare le convinzioni della cultura popolare di quegli anni. Una cultura che avvertiva il bisogno di identificare, disegnare e poi ridicolizzare i propri mostri, senza che il cinema avesse nulla da inventare.
Oggi che anche la rappresentazione cinematografica diventa sempre più aderente alla realtà, è significativo rivedere fotogrammi paradossali. Ma va sottolineato che sono stati per generazioni il simbolo di una vergogna di sé, difficile da sconfiggere. Nei confronti di queste figure resta quindi una condanna senza appello? Non soltanto. “Per molti interpreti non era una costrizione. Si divertivano – sintetizza il giovane Filippo -: recuperare una visione divertita”, può dare nuova forza alle battaglie da compiere.
L’uscita di “Ne hai finocchi in casa” è prevista a breve.
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