Guglielmo Leon sa perfettamente chi è. Lo ha sempre saputo: un maschio, nato in una cittadina come tante del “centro Italia” a metà degli anni Ottanta. E di conseguenza, fin da piccolissimo si comporta come qualsiasi maschio fa. O almeno cosi crede. Sarebbe un’infanzia qualsiasi, la sua, se improvvisamente – ancora molto piccolo – suo cugino, compagno di giochi e di scorribande e poi delle prime esplorazioni dei reciproci corpi, non buttasse lì come per caso: “Anche tu sei una femmina”.
In quel momento ancora non lo sa ma Per Guglielmo Leon, alter ego romanzesco di Liv Ferracchiati – regista, drammaturgo e attore – inizia una recita, che dovrà durare per decenni: rappresentare la coerenza ad un corpo che lo vuole femmina, a uno sviluppo che lo incatena alle regole della biologia femminile, ai seni e al menarca. Sarà per decenni la sua prima e più importante prova d’attore, senza mai un lunedì di riposo. Il pubblico del resto – una madre sempre oltre il limite del ricatto morale – non concepisce alternativa. Ma soprattutto, a non comprenderla e a non permettersela e il regista più inflessibile: se stesso.
Le pagine di Sarà solo la fine del mondo torrenziali e densissime, piene di ironia come è solo quel che parla davvero di noi, sono un lungo flusso di coscienza: il diario intimo e schietto di un giovane uomo che, senza pudori o censure, e con quel pizzico di divertito compiacimento necessario a sopravvivere, attraversa una scoperta di sè fatta di paura, di dolore, di sesso e di amore, di desideri esplosivi e di mancanze inesprimibili. L’educazione all’età adulta, in fin dei conti. Solo che per Guglielmo Leon significa permettersi di essere chi è, significa mettere insieme tutte le parti di sè. E scoprire, anche, che non per tutti e non sempre c’è bisogno di costringere il corpo a trasformarsi in quello che il mondo crede che un uomo debba essere, per sentirsi intero.
Trovare nel corpo che su di se non sa riconoscere l’oggetto d’amore e felicità possibile, quando diventa il corpo delle donne che ama. Donne che, prima ancora di quanto sia disposto a farlo lui, lo riconoscono e lo fanno esistere come chi sa di essere e nasconde. Gli insegnano a lasciar andare, poco alla volta, la zavorra del binarismo, e, con generosa fermezza, a non avere paura.
Il romanzo, edito da Marsilio, divertente e velocissimo nelle sue pur quasi cinquecento pagine, corre via in leggerezza ma è presa di consapevolezza e proiezione insieme, un invito a spingere lo sguardo dove in genere non si arriva o non si vuole arrivare. Nelle verità più scomode di un uomo T di provincia che parla senza infingimenti di quel che ha sentito davvero. Ma anche nel tempo dilatato che offre la consapevolezza. La voce di Guglielmo Leon parla dentro un altro corpo – gabbia, ma non solo – da prima di venire al mondo.
Ed è, nota di colore, il prototipo del giovane millennial, imprigionato e cullato dalla rete di riferimenti sociali, culturali che hanno definito e condizionato la sua generazione, e restituisce anche un affresco vivido dell’ultimo pezzo di novecento e degli anni Dieci del 2000, visti con gli occhi di domani, del 2078.
Di un tempo in cui – si immagina – Guglielmo Leon e il mondo avranno imparato ad assomigliarsi, a lottare per superare un presente sempre più cupo e discriminatorio. Dentro cui, però, decine di migliaia di corpi liberati sapranno rivendicarsi, e costruire un futuro in cui alle persone T, e a tutte le persone, sia dato un altro futuro, che ha cancellato le “poiane”, gli sport da maschi e da femmine, l’asfittica chiusura di tutte le province del mondo. Dove anche Guglielmo Leon, esattamente com´e può invecchiare accanto a una moglie amatissima, se lo desidera, avere dei figli. E far chiudere il sipario scegliendo fino all’ultima scena, sapendo che il teatro non è il luogo della finzione, ma lo spazio dove, come insegna il grande regista e teorico Stanislavskji, si compie “il lavoro dell´attore su se stesso”, un apprendistato a diventare un altro, senza mai perdersi.
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