Se pensavate che, con l’approvazione della legge sulle unioni civili private della stepchild adoption, sarebbe cessato anche l’imbarazzante dibattito sulla gestazione per altri, nato proprio in concomitanza con l’iter della legge in Parlamento, vi sbagliavate. Emerge infatti in queste ore un documento firmato da quarantanove lesbiche che rimette al centro della discussione la questione della maternità surrogata. Un testo che si scaglia contro ogni tentativo di regolamentare la gestazione per altri, come da più parti chiesto nei mesi scorsi. “Non è un testo proibizionista – si legge nell’appello -, ma è contrario ai contratti e agli scambi di denaro per comprare e vendere esseri umani, che ora in Italia sono illegali perché il contratto non è valido”.
Affermazioni pesantissime che non tengono in considerazione i racconti della Gpa fatte dalle stesse donne che hanno partorito bambini per coppie che non potevano averne diversamente (siano esse eterosessuali o omosessuali), in paesi in cui i regolamenti sono stringenti e i controlli ferrei (come gli Usa o il Canada). Racconti di tutt’altro tenore, resi spontaneamente e tutti di donne che appartengono a quello stesso “primo mondo” da cui arriva il desiderio di genitorialità.
“Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione – prosegue il testo -, in modo che la gravidanza e il parto diventino un mestiere (nemmeno riconosciuto come tale, in nessun luogo) e i neonati dei prodotti con un valore di scambio”.
Considerazioni che valgono per paesi in cui i diritti umani in senso più ampio sono fortemente compromessi (come l’Ucraina o l’India), ma che cadono come un castello di carte se parliamo, appunto, del cosiddetto primo mondo in cui i paesi che regolamentano la Gpa prevedono stringenti verifiche psicologiche sulle donne che scelgono di fare da madri surrogate, oltre che economiche allo scopo di assicurarsi che nessuna costrizione sia alla base di una scelta così delicata. Sono le ragioni per cui, non a caso, si chiede che il fenomeno venga regolamentato per impedire con tutti i mezzi possibili che ci siano costrizione e sfruttamento e si garantisca la libertà di ogni donna di fare con il proprio corpo ciò che ritiene giusto fare, come del resto ripeteva un vecchio adagio femminista a proposito dell’utero. La sensazione, ancora una volta, è che siano donne che parlano di donne con cui non hanno nemmeno mai parlato, arrogandosi il diritto di decidere per loro. Ed è una brutta sensazione.
Come detto, sono quarantanove i nomi in calce a quest’appello che potete leggere integralmente cliccando qui. Tra loro alcuni nomi noti della comunità lesbica come Edda Billi, Francesca Polo e Cristina Gramolini.
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