Il tema sulla gestazione per altri deve essere affrontato, dentro la comunità, in modo chiaro ed esaustivo. Deve essere affrontato in modo limpido, cercando di capire cosa si vuole ottenere, a che punto si vuole arrivare, mettendo in gioco tutte le sensibilità in campo. Questo significa, a parer mio, ascoltare i due fronti: chi è d’accordo e chi non lo è. Perché si sa, la democrazia è questa. E poi fare una scelta, che non lasci spazio ad ambiguità alcuna. So che nel contesto italiano, culturalmente mediocre e politicamente pavido, è difficile arrivare a posizioni forti, ma questo non deve essere un alibi per non fare un tentativo in tal senso.
La soluzione sta, a parer mio, nel rigettare il principio del divieto. Se dovessimo vietare tutto ciò che non ci piace – e riprendo il pensiero di Chiara Lalli – vivremmo in un mondo di proibizioni. Regolamentare la pratica, nell’interesse delle parti in gioco, può essere invece una strada per mettere d’accordo quelle sensibilità diverse su un tema che scuote le coscienze. Partendo magari da una considerazione di base: il far west giuridico favorisce situazioni poco limpide e andrebbe evitato. Il divieto assoluto favorirebbe il sottobosco di pratiche illecite, per cui la “cura” non solo non allevia il male, ma lo fa crescere rigoglioso. Una legge che tuteli del donne, in primis, e le famiglie subito dopo, in cui la dignità della gestante sia garantita potrebbe essere una mediazione accettabile. Una legge che faccia capire che tra le posizioni più intransigenti (di divieto) e quelle liberali in assoluto (che ammettono anche la Gpa a pagamento) ci sono posizioni intermedie che andrebbero prese in considerazione.
Non può esserci dialogo, secondo me, con chi agita lo spettro del “reato universale” contro la Gpa. Mettere in un unico calderone pratiche illecite e l’autodeterminazione di donne che mettono a disposizione il loro corpo per far venire al mondo bambini, è un atteggiamento criminalizzante che non può essere tollerato. Si faccia un discorso serio su quelle situazioni in cui c’è sfruttamento. Si rispetti, invece, chi sceglie liberamente. Il discorso del reato universale, per altro, si configura come elemento discriminatorio per i padri gay (e solo per loro). Il discorso per cui alla surrogacy afferiscono anche le coppie eterosessuali è un argomento debole. Queste ultime, infatti, possono benissimo simulare una gravidanza, al contrario delle coppie gay.
Stabilire a quali ambiti può accedere una categoria di persone e quali no è, a tutti gli effetti, un atteggiamento discriminatorio e paternalista. Discriminatorio nei confronti dei maschi gay, perché in quanto tali diventerebbero padri solo a certe condizioni, stabilite da certe femministe: un principio che è contrario all’autodeterminazione. Paternalista, perché si decide sul corpo di donne libere: principio che è contrario alla lotta di liberazione delle donne nella gestione del proprio corpo.
I temi da mettere in campo, ovviamente, non si esauriscono qui. Ho solo cercato di porre l’accento su alcuni elementi di una narrazione viziata da sentimenti di negatività sia contro gli uomini, in generale, sia contro i maschi gay nello specifico. Sentimenti che hanno piena cittadinanza in certe frange del femminismo della differenza e che, al contrario, sono ampiamente superati da altre realtà politiche che hanno capito che la guerra tra i sessi è qualcosa da relegare al passato. Ed è da qui che, a parer mio, bisogna partire: stabilire se l’omo-misandria sia una categoria politica valida o un sentimento d’odio al pari di altri che diciamo di voler combattere.
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