Ci siamo. La discussione sul disegno di legge contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia è entrato nel vivo. Siamo alla vigilia della presentazione in Commissione Giustizia della Camera del testo frutto dell’unificazione di cinque proposte.
Del testo, anticipato qualche giorno fa da Simone Alliva su l’Espresso, sarà relatore il deputato Pd Alessandro Zan.
La legge, o meglio una legge, contro l’odio basato sull’orientamento sessuale e l’identità di genere è attesa da almeno 24 anni. L’Italia è uno dei pochi paesi occidentali a non prevedere un’aggravante se una persona viene aggredita perché lesbica, gay, bisessuale o trans. Invece è già prevista per motivi razziali, di nazionalità o di credo religioso.
E’ la legge Mancino-Reale che, infatti, si intende estendere anche ai reati commessi sulla base dell’orientamento sessuale e/o l’identità di genere.
Come detto, ci siamo. Dopo una serie di audizioni di giuristi, associazioni e avvocati, la prossima settimana il testo sarà ufficializzato in Commissione. La discussione in aula alla Camera è calendarizzata per luglio. Naturalmente, in commissione sarà possibile emendarlo prima del dibattito a Montecitorio.
E se la comunità lgbt+ non si è ancora espressa nettamente sul testo in discussione, pur rimarcando continuamente la necessità di una legge contro l’omofobia e la transfobia, il fronte dei contrari ha già iniziato il fuoco incrociato.
Inutile dire ad aprire le danze sono state, ormai mesi fa, le associazioni dell’area Family Day. La campagna contro è iniziata già a ottobre del 2019 con un mail bombing che ha riguardato anche deputati e senatori. Nel testo della mail, intitolata “Chi si oppone alla teoria gender rischia il carcere?” Pro Vita scrive che “il pericolo più grave è il tentativo di criminalizzare, senza definirla, la discriminazione o anche soltanto l’incitamento alla discriminazione ondata su orientamento sessuale e identità di genere”. Lo scorso 20 febbraio Toni Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vice presidente di Pro Vita e Famiglia denunciavano all’Ansa presunti rischi di violazione della libertà di espressione se la legge dovesse passare.
Secondo Brandi e Coghe “tutelare in base al proprio comportamento sessuale costituisce un’infondata violazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini”. I due, che ricordiamo anche tra gli organizzatori del Congresso delle Famiglie di Verona, sostengono che “si tratta di mettere il bavaglio e di togliere la libertà di pensiero alle persone”. E aggiungono che la normativa vigente è già sufficiente a tutelare le persone da comportamenti illeciti. Una posizione che trova sponda dentro il parlamento, naturalmente a destra. In questo senso si è già espresso il senatore Pillon.
Posizione sostanzialmente identica a quella espressa dalla Cei qualche giorno fa e che ha scatenato un fiume di reazioni.
In una nota, la conferenza dei vescovi italiani parla chiaramente di rischio di “derive liberticide”. “Si finirebbe – per la Cei – col colpire l’espressione di una legittima opinione, come insegna l’esperienza degli ordinamenti di altre Nazioni al cui interno norme simili sono già state introdotte”.
In realtà, lo stesso Zan ha spiegato più volte che non c’è alcun rischio di deriva liberticida e che la legge in nessun modo punirebbe le opinioni.
Al netto della risposta arrivata a stretto giro, il deputato padovano ha spiegato in un’intervista ad Avvenire che “nella formulazione del testo unico che presenteremo mercoledì prossimo, estendiamo i crimini omotransfobici solo per l’istigazione all’odio e alla violenza. Nessuno riferimento ai commi dell’articolo 604 che fanno riferimento alla libertà d’espressione”. Del resto, spiega ancora Zan, che la parte della Reale-Mancino che fa riferimento alla libertà di espressione “considerata di dubbia costituzionalità, non è mai stata concretamente applicata”. Estenderla all’orientamento sessuale e all’identità di genere, dunque, sarebbe stato inutilmente rischioso.
Vale la pena sottolineare la posizione un po’ schizofrenica della Cei e della parte di mondo cattolico che teme la restrizione della libertà di espressione. La Legge Reale-Mancino, infatti, condanna fino a 1 anno e 6 mesi di reclusione chiunque “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. La pena va da sei mesi a quattro anni per “chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
La domanda è: perché se parliamo di religione non c’è alcun rischio di “derive liberticide”, ma se parliamo di orientamento sessuale e identità di genere sì? Mistero. O forse no.
Alle voci interne al mondo cattolico, però, si aggiunge anche il “fronte interno”. In un’intervista rilasciata oggi sempre ad Avvenire, il deputato del Pd Stefano Ceccanti sostiene che i timori della Cei siano giustificati.
Pur definendo “opportuna, anzi necessaria” una legge contro l’omofobia e la transfobia, Ceccanti dice che “dobbiamo evitare che per comprimere troppo il pluralismo, sia pure in nome del pluralismo stesso, si vada a colpire il libero convincimento degli altri”. Secondo Ceccanti la tutale delle minoranze vittime di discriminazione non deve sfociare in “eccesso di legittima difesa”. Va da sé che specificare in questo modo palesa la convinzione che in fondo la Cei non si sbagli poi tanto. Ceccanti parla per sé o è rappresentativo di un’area?
E poi ci sono alcune realtà del femminismo radicale, le frange che si riferiscono a quel femminismo trans-escludente e minoritario ormai da tempo, ma che vantano dalla loro parte nomi di una certa notorietà e che, per questo, facilmente trovano risonanza mediatica. E’ il caso, ad esempio di “Se non ora quando – Libere” che ha di recente inviato una lettera ai parlamentari proprio sulla legge in questione.
Le firmatarie esprimono “forte preoccupazione per una proposta legislativa contro l’omotransfobia che estende i crimini d’odio anche alla cosiddetta identità di genere”.
Per quel fronte lì, infatti, tutto si gioca sul concetto di identità di genere visto come una minaccia alla differenza tra uomini e donne. A questo punto basterebbe tornare al paragrafo su Pro Vita per chiudere il cerchio e trovare il cortocircuito perfetto. Ma andiamo avanti.
Non è l’omofobia, il problema, ma la transfobia. Preoccupate dal fatto che il concetto di identità di genere sostituisca quello di sesso, a danno di chi nata donna si identifica come tale, le firmatarie della lettera affermano che “(se) si sostituisce la nozione di sesso con quella di identità di genere, i diritti delle donne ne riceveranno un danno”. Una sorta di gerarchia in cui qualcuna è più (o meglio) donna di altre e per questo debba tutelare le posizioni acquisite negli anni.
Una posizione, per altro, del tutto estranea ad altre aree del femminismo. Quelle, per intenderci, che hanno riempito le strade di Verona contro il Congresso delle famiglie e che da anni portano in piazza decine e decine di migliaia di donne (e di uomini) ben due volte all’anno: il 26 novembre e l’8 marzo.
Ma il concetto di “identità di genere” esiste già in giurisprudenza. Ad esempio “la Corte costituzionale, nella sentenza n. 221/2015, definisce espressamente l’identità di genere quale diritto fondamentale” come ha spiegato il giurista Angelo Schillaci.
Chi ha seguito da vicino il dibattito sulle unioni civili, ormai quattro anni fa, va ripentendo da settimane di avere dei pericolosi déjà vu.
Ricorderete la ferocia delle frange cattoliche più radicali contro un istituto che non è neanche il matrimonio egualitario. Ricorderete le posizioni delle stesse aree del femminismo contro la gestazione per altri (mai parte della legge Cirinnà, per altro) usata come clava contro la stepchild adoption. E ricorderete anche la battaglia senza frontiere condotta all’interno del Pd dai cosiddetti cattodem contro le famiglie arcobaleno.
Il film, insomma, l’abbiamo già visto. C’è, però, ancora la possibilità di riscrivere il finale.
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