La vittoria di Antonio Lorenzon a MasterChef ci fa un attimo respirare – in modo sicuro, epidemiologicamente parlando – permettendoci di pensare anche ad altro, rispetto all’emergenza in corso da coronavirus. O almeno, a me permette di farlo (sono un ipocondriaco e scrivere ben tre articoli di fila sul virus non è proprio un toccasana, ma chiudo subito qui il discorso). Parliamo dunque di questa vittoria, non tanto per l’evento in sé, quanto per la nota di colore (anzi, di colori ce ne sono ben sei) che si è portata dietro: la proposta di “matrimonio” di Lorenzon al compagno. Anche perché mi permette di allargare la riflessione su un’altra questione che mi sta a cuore. Ma andiamo per ordine.
E, andando per ordine, intanto eccovi qui il video della vittoria, con tanto di proposta di matrimonio:
Or bene, me ne rendo conto. Che tutto è ad uso e consumo di un immaginario rassicurante, commerciale, funzionale a vendere un prodotto (la trasmissione, nello specifico). E già li sento i “crociati” – me la permettete la simpatica battuta? – dell’antifamilismo ululare alla luna sul fatto che quest’ennesima vicenda fa un favore alla “norma”, all’ordine precostituito, a quella visione della società che è, proprio per la natura della trasmissione di cui stiamo parlando, normalizzante. Il che è vero. Non credo in che modo e, di certo, non so quanto sia vicino a certa politica Lgbt+ il vincitore di MasterChef. Credo, altresì, che non sia nemmeno suo dovere. Per cui a me vanno pure bene tutti i musi storti e tutte le analisi – con tutto il corredo di critiche – a quanto sia stato “normativo” il momento in questione.
E poi c’è l’altra parte della medaglia. O della narrazione. Perché la critica a un modello, per quando condivisibile – e chiarisco da adesso: il sistema eteronormativo non piace nemmeno a me, per il semplice fatto che prova a farmi fuori non appena possibile – deve tener conto degli aspetti concreti della realtà. E la realtà che c’è la fuori prevede non solo una massa di individui che in quel modello si riconosce (e possiamo discutere quanto acriticamente), ma anche un insieme di persone – leggi: carne e sangue – che quel modello lo ribaltano, fosse anche recuperandone elementi che riadattano alla propria situazione. Un esempio per tutti: le coppie unite civilmente o sposate e, più nello specifico, la famiglia omogenitoriale.
Qualche settimana fa, è girata un’immagine tra i miei contatti. “La famiglia è nocività patriarcale” recita una scritta su un muro, fotografata nella periferia di Roma. Firmato: “W le lesbiche”. Poi un’aggiunta, sicuramente posteriore: “Anche quella arcobaleno”. E sotto la parola “lesbiche”, è stato aggiunto – verosimilmente in un secondo momento – la parola “arrabbiate”. Ne viene fuori, dunque, un attacco alla famiglia tutta con un focus specifico su quella omogenitoriale. Segno plausibile che dentro una parte della nostra comunità si sta sviluppando un sentimento di intolleranza nei confronti delle famiglie arcobaleno. Ringraziano, intanto, quelli che vanno ai vari family day.
Gli argomenti “contro” sono quelli di certo femminismo e certo movimento queer. Che, a mio giudizio, hanno anche ottime ragioni, e pure ampiamente condivisibili, nel momento in cui si può (e si deve) criticare il sistema. Ma che cadono in errore, dal mio punto di vista, nel momento in cui si spara nel mucchio. Facendo confusione tra familismo e “famiglia” (lo scrivo tra virgolette perché voglio indicare, per ora, il significante e non il contenuto semantico) e tra “sistema” e situazioni reali: e la realtà è, di solito, molto più sfaccettata (e quindi varia) dell’analisi che pretende di racchiuderla dentro i parametri dell’interpretazione.
Nel mondo reale – e si badi, non voglio opporre a “realtà” quel femminismo e quel pensiero queer di cui sopra, ma credo sia fondamentale distinguere tra modelli interpretativi e la “carne” e il “sangue” delle persone che vogliamo infilarci dentro – nel mondo reale, dicevo, le intenzioni che possono spingere due persone a stare insieme e a “metter su famiglia” possono essere varie e molteplici. Dall’interesse puramente economico, al desiderio di emulazione di un modello che si reputa ottimale e ottimalizzante. Oltre tutto il resto dello spettro del possibile. E su questo possiamo discuterne, e pure a lungo. Poi c’è chi quel modello lo combatte. Anche adottandolo (e si noti il corsivo).
Una coppia di donne che mette su famiglia (con o senza prole) disattende il patriarcato e le sue logiche, perché abolisce alla base la gerarchia di genere uomo/donna su cui si innesta il familismo classico. Me lo insegnano le mie amiche lesbiche (che hanno prole). E anche una coppia composta da due uomini destruttura quei ruoli fissi, per le stesse identiche ragioni. Ancora mi insegnano, proprio alcune persone esperte in studi di genere, che dovremmo dare parola a chi vive certe situazioni per capirne le ragioni profonde. Per entrare in contatto con quella necessità di esistenza che a lungo ci è stata negata da narrazioni fuorvianti. Dall’ansia e dalla necessità, propria del sistema patriarcale ed eteronormativo, di cancellarci.
Esiste dunque una “necessità di esistenza”, opposta alla necessità di negazione, che riguarda la coppia formata da persone dello stesso sesso. Che, per tornare al significante lasciato in sospeso poco più su, possiamo definire – e dovrebbe essere un atto politico – come “famiglia”. Proprio per depotenziarne il portato negativo che certo pensiero cattolico integralista ha immesso in quel termine, caricandone il significato. Se “famiglia” è insieme di uomo e donna (eterosessuali) possibilmente con prole, noi non siamo famiglia. Ribaltiamo, invece, la questione: famiglia è quel progetto, liberamente concepito, di unione tra persone che scelgono (avete presente l’autodeterminazione?) di vivere una data esperienza. E scelgono, altresì, di prendere parola, raccontandola. Anzi, di prendersi quella parola (in linguistica: significante), introducendovi un significato nuovo.
Dopo di che, tornando a Masterchef, io credo che ciò che abbiamo visto vada bene così. Per due buone ragioni: 1) si propone al grande pubblico, quello mainstream, la possibilità di esistenza di un modello altro (che il senso comune, intriso di “norma”, fa fatica a riconoscere); 2) si prende parola, attraverso l’adozione di parole comuni, scardinando i limiti imposti dalla visione eteronormativa. “Vuoi sposarmi” manda a dire, in modo inconsapevole molto probabilmente, che il concetto di matrimonio (e di famiglia ad esso legato) previsto dalla “norma” è molto più ampio. Prevede soggettività che ancora oggi sono viste e percepite come marginalizzate. Come non degne (d’esistere). E queste stesse si prendono il diritto alla visibilità. Poi c’è tutto il tempo di creare un contesto culturale di maggiore consapevolezza: e i femminismi e gli studi queer possono insegnarci davvero molto. E tutti e tutte potremmo imparare tanto, in un processo di integrazione, se ascoltassimo le storie di chi certe realtà – di nuovo, carne e sangue – le abita.
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