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Barbie, un film femminista? Ecco perché andare a vederlo (spoiler)

Complice una vacanza fallita – la situazione all’aeroporto di Catania dopo l’incendio non è per niente migliorata, anzi… – per ingannare la noia estiva sono andato a vedere Barbie. Premetto che, nonostante l’hype, il mio approccio alla pellicola è stato del tutto laico. Non mi attendevo niente che cambiasse la mia visione del mondo, né un capolavoro della cinematografia mondiale. E davo per scontata la più banale delle verità, quando si va al cinema: un film può non piacere.

Fatte queste doverose premesse, cercherò di spiegare perché Barbie va visto. E perché alla fine, con tutti i suoi limiti, rappresenta un punto a favore di chi si batte per i diritti delle donne e delle minoranze. Con la solita avvertenza: ci sono alcuni spoiler. Per cui, se non avete visto il film, interrompete qui la lettura.

Tra ironia e genialità

Il banner del film

L’incipit, da solo, vale il biglietto. L’omaggio a Kubrick, con chiaro riferimento a 2001 Odissea nello spazio e con tanto di musica di Strauss in sottofondo, è uno dei picchi di genialità di Barbie. E non è l’unica citazione cinematografica (lascio a voi il piacere della scoperta, nel godibilissimo film di Greta Gerwig). E quel genio ritorna quando si dà della fascista alla protagonista (l’attrice, Margot Robbie, è davvero brava). Che, afflitta, ricorda di non saper nulla di treni. Per non parlare alle allusioni alla mancata genitalità dei due personaggi principali, Ken compreso (interpretato da Ryan Gosling). Aspetto che si ricollega al finale, nel momento in cui Barbie si appropria della sua umanità (vagina inclusa).

Barbie film femminista?

C’è chi dice che sia un film femminista. Secondo altri rumors, è un film troppo politicamente corretto. Nel primo caso, con accezione positiva, e nel secondo con una punta non poco polemica. Lascio alle attiviste femministe la valutazione sul portato “politico” del film in quella direzione. Io ho notato alcuni aspetti che, piaccia o meno, diventano effettivamente politici. Il rapporto dell’uomo con il maschile, ad esempio. Contrariamente a quanto ho letto qua e là, la pellicola non tratta affatto gli uomini da imbecilli. Ti suggerisce solo che il modello culturale di riferimento è per imbecilli. E per questo motivo chi è di destra – ma vale anche per diversi maschi di sinistra – si sente toccato nel vivo.

La consapevolezza ti salva

Barbie tra i Ken

Il cattivo, insomma, non è certo Ken. Semmai è il patriarcato, che a un certo punto fa proseliti anche tra le altre Barbie. Ce lo ricorda la coprotagonista umana, Gloria (in cui riconosciamo una bravissima America Ferrera) entrata in connessione con la sua vecchia bambola, in un momento di nostalgia per la sua vita passata. In mancanza di anticorpi contro la subcultura maschilista, esse stesse ne diventano vittime e complici al tempo stesso. Anche questo, se vogliamo, è un messaggio politico (e non scommetterei che sia del tutto inconsapevole). La consapevolezza, ci ricorda il film di Barbie, è tutto. Ti fa prendere coscienza di chi sei. Con la parte più vera di noi. E a un certo punto ti libera.

Ken il “cattivo” e Barbie stereotipo

Barbie ti ricorda, ancora, che il femminismo può salvare anche gli uomini. Sempre attraverso le maglie dell’autocoscienza. Ma, come già detto, non dobbiamo fare l’errore di pensare che sia Ken (o il genere maschile) il villain della storia. E non certo perché agli uomini non vengano imputati errori e prevaricazioni. Ma, appunto, la critica è al sistema. E così come Ken non è il cattivo, la protagonista non è l’icona femminista della storia. Tale ruolo è affidato a Gloria, che risveglia le coscienze perché vive nel mondo reale. E porta la sua esperienza, col suo quotidiano di dolore e di fatica dell’essere donna, a Barbieland. Mondo parallelo dove vige la regola del “life in plastic is fantastic”. Se Ken deve trovare la sua identità, la protagonista deve invece liberarsi da una serie di luoghi comuni che l’hanno resa quella che è. Uno stereotipo.

La critica all’invisibilizzazione delle minoranze

Le protagoniste del film

I sottotesti, ancora, sono molti. Dalla stilettata al passato coloniale (Gloria ricorda che i popoli nativi vennero sterminati dalle malattie portate dai dominatori europei), alla battuta sui processi di appropriazione culturale della componente bianca, negli USA. E lo sguardo critico, ancora, può rivolgersi a un certo radicalismo fine a se stesso. Ma non credo affatto che il film critichi il femminismo in quanto tale. Barbie, quando realizza che la sua visione del mondo lo ha cancellato, chiederà scusa a Ken. Proprio dopo che lui l’accusa di averlo costantemente messo ai margini, se non invisibilizzato. E in quella dimensione al contrario che è Barbieland, è un dar voce a tutte quelle minoranze che subiscono lo stesso destino nel mondo reale.

Barbie vs Trump (e anche contro Giorgia Meloni)

Insomma, non credo che Barbie sia un film che vuole salvare il mondo, né fare rivoluzioni. Semplicemente ti dà la sua visione della società occidentale per come essa è: cioè tracotante e sbagliata. Non è nemmeno un film di “sinistra”, cosa che potrebbe far storcere il naso a chi si aspetta una critica al sistema capitalista (altro spoiler: non c’è). Ma di certo è un film antimeloniano, visto nell’Italia di oggi. O, meglio ancora, anti-Trump. Perché gioca su quella narrazione – ultranazionalista e intrisa di mascolinità tossica – ridicolizzandola. E solo per questo andrebbe visto.

Qualche didascalia di troppo, ma l’obiettivo è raggiunto

Una scena del film

Certo, i difetti ci sono. Il finale sembra un po’ stroppo stiracchiato. E alcuni momenti, sia nella sceneggiatura sia nella narrazione stessa, sono un po’ troppo didascalici. E massacrando la Mattel, che ha dato pagina bianca a regista e chi ha scritto i dialoghi, si può anche sospettare a un processo di pink washing funzionale al rilancio del brand. Ma non dobbiamo dimenticare il suo target di riferimento: il mainstream. Quella “bestia” che non segue grandi ideali, ma che si lascia affascinare dalle mode del momento. E se al grande pubblico offri un prodotto confezionato ad arte, dove però metti parole come “patriarcato”, mentre gli fai anche capire come funziona e come ti frega, possiamo dire che l’obiettivo è stato raggiunto. Non è il film della vita, insomma. Ma fa riflettere. E di questi tempi non è poco.

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