Io, prete gay, e l’ipocrisia della Chiesa. Intervista a Krzysztof Charamsa

Sacerdote, teologo, ufficiale della congregazione per la dottrina della fede (ex sant’uffizio, ex santa inquisizione), segretario della commissione teologica internazionale, professore alla pontificia università Gregoriana e al pontificio ateneo Regina Apostolorum. Dal 3 ottobre 2015 a Krzysztof Charamsa è cambiata la vita. La rivoluzione ha avuto inizio con la lettera che il sacerdote ha inviato a Papa Francesco, nella quale dichiarava «di rifiutare pubblicamente la violenza della Chiesa nei confronti delle persone omosessuali, lesbiche, bisessuali, transessuali, intersessuali»: «noi non siamo nemici né di essa né della famiglia: questa è un’immagine falsa e offensiva che la Chiesa ha creato di noi e quest’ultima deve smetterla di seminare odio contro chi vuole vivere in pace il proprio amore su questa terra». La storia di questo personale Stonewall è raccontata nelle pagine, fresche di stampa, di La prima pietra. Io, prete gay, e la mia ribellione all’ipocrisia della Chiesa (Rizzoli, 2016).

Che cosa la ha spinta a mandare quella lettera?
La lettera a papa Francesco era lo scritto al mio superiore ecclesiastico. Io lavoravo in Vaticano, cioè per il papa, a cui per primo dovevo spiegare il mio gesto. Ma c’era anche una ragione più personale: la mia lettera è piena di passione, chiara e dura nella denuncia dell’omofobia della Chiesa. Ritenevo che papa Francesco fosse una persona trasparente, capace di accogliere e riflettere su un grido sofferto e disperato, causato da un disumano comportamento della Chiesa. Mai avrei scritto una lettera del genere ad altri superiori della Chiesa, che si meritano solo il silenzio.

A che età ha capito che la sua strada era all’interno della Chiesa?
Volevo essere prete fin da piccolo. È la coscienza di una chiamata che mi ha spinto a esserlo.

Era già consapevole della sua omosessualità?
Sì, la stessa cosa devo dire della mia omosessualità. Come da sempre sapevo di voler essere prete, così da sempre sapevo di essere gay, solo che plasmato dalla Chiesa nell’odio contro i gay, odiavo la mia identità. Invece di amare me stesso, volermi bene in quanto gay, rispettarmi come gay, mi plagiavano con l’odio verso me stesso. La semplice gioia di vivere ci viene tolta sia nella Chiesa sia nelle società omofobiche.

La Chiesa, a causa dei suoi anacronismi, induce molte persone omosessuali ad allontanarsi…
Non induce solo a allontanarsi, induce a gravi problemi spirituali, ma anche psicologici, e la sua mentalità omofoba sottilmente induce non pochi al suicidio.

I gay che si allontanano dalla Chiesa agiscono in difesa della propria vita e salute, dunque obbediscono al comandamento “non uccidere”. Molte volte per salvare la serenità e la pace interiore devono abbandonare quell’istituzione che, per usare l’odioso linguaggio del Catechismo, “giustamente discrimina”. Il Catechismo non rifiuta la discriminazione dei gay: il Catechismo rinuncia solo alla “discriminazione (che la Chiesa ritiene) ingiusta”, ma obbliga i cattolici a mantenere la “discriminazione giusta”: per esempio, non affittare un appartamento a un gay dichiarato, licenziarlo dalla scuola dove insegna, se svela il suo orientamento sessuale, vietargli di essere allenatore in un club sportivo… Purtroppo i cattolici sono i primi ignoranti della dottrina della Chiesa! Non conoscono i documenti del magistero vaticano che sono documenti di segregazione e di persecuzione sulla base dell’orientamento sessuale.

D’altro canto nel libro parla di un clero «pieno di gay»: un sacerdote che sa di essere gay come riesce a scende a patti con l’omofobia della Chiesa?
La maggior parte lo fa per difendersi. È come l’impermeabile che inizi a indossare per non svelare chi sei. Obbedientemente ai dettami della Chiesa, ti ricopri dell’odio verso te stesso e verso gli altri gay. È l’omofobia interiorizzata dei gay imbevuti della negatività circostante nei loro confronti. E non riguarda solo i preti o le suore.

«Uno dei pontificati più gay della storia moderna»: così lei definisce il pontificato di Benedetto XVI. Se pensiamo alle politiche intransigenti di Papa Ratzinger questo sembra un paradosso.
Sì, è il paradosso di tutto il cattolicesimo. Proprio là dove si presenta più omofobico, là nasconde spesso o non riesce neanche a nascondere tutti i tratti omosessuali repressi e mortificati della comunità cattolica, in cui i gay non sono rari. La religione non è eterosessuale: la religione è anche gay, ma perseguita questa sua dimensione.

Benedetto XVI ha scritto nel suo ultimo libro che in Vaticano esisteva davvero una “lobby gay” composta da 4 o 5 persone e che lui l’ha smantellata durante il suo papato. Cosa ne pensa?
Il Papa Emerito parla di 4 o 5 carrieristi che ha nominato “lobby gay”. Se in una Chiesa così potente come Chiesa cattolica 4 o 5 “tizi” possono costituire una potente lobby, mi preoccupo: così essa ammette di essere manipolabile da 4 o 5 disgraziati!

Tutto questo è solo conferma che quella fittizia “lobby” è un prodotto della paranoia omofobica della Chiesa: una vera lobby non esiste. Semmai nel Vaticano esistono lobby di genere diverso: una lobby governava la Chiesa negli ultimi tempi del papato di Giovanni Paolo II, quando il papa che era in fin di vita e impossibilitato a governare; così c’erano alcuni che “facevano il papa”. Più che gay queste lobby sono omofobe!

La Chiesa avvierà, prima o poi, quel processo di rinnovamento che lei auspica nel libro?
Certo! Di questo sono convinto. Per molti secoli pensavamo che la Chiesa non accettasse il sistema copernicano o la scoperta dell’evoluzione o i matrimoni tra varie confessioni. Tutto questo veniva perseguitato dalla Chiesa e poi, un bel giorno, la Chiesa cambia, si adegua alla scienza e all’esperienza umana. Io penso che i preti gay che lavorano in Vaticano hanno il dovere morale di fare di tutto affinché la Chiesa inizi a trattare i gay e le lesbiche come persone umane. Hanno il dovere di studiare l’omosessualità e lavorare, come fanno molti gruppi che lottano per i diritti umani, affinché questo sistema patriarcale inizi a pensare.

Nel libro è centrale il riferimento a Narciso e Boccadoro di Herman Hesse. Quali sono stati i “maestri” che la hanno guidata in questo suo percorso catartico? E quali i “maestri” che la hanno guidata nella scrittura della tua autobiografia?
A pensar solo a maestri letterari, sono moltissimi… da ciascuno dei miei maestri ho imparato qualcosa. Sono fedele all’arcobaleno dai colori variegati. Ad esempio, George Orwell mi ha introdotto alle strutture dei regimi dittatoriali come è anche il sistema della Chiesa, mentre Hannah Arendt mi ha insegnato molto sulla coscienza dei totalitarismi e delle discriminazioni, sulla dignità del singolo. Torno spesso alle profetiche scene del teatro di Ibsen, ma mi è prossimo anche Beckett per capire le sofferenze delle nostre attese di una normalità razionale.

Molte volte penso che nel mio scrivere fungono da maestri non solo gli altri scrittori, ma i pittori impressionisti e espressionisti, come Emil Nolde, ma qualche volta anche surrealisti o pittori metafisici, come René Magritte. Quando scrivo cerco la poeticità della vita nei frammenti, qualche volta negli elenchi veri e propri di parole, di impressioni. Ma anche nei silenzi.

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