Sono le 23.30 di un martedì qualsiasi.
Uno di quei tanti martedì in cui il marito è a Roma e io mi ritrovo a Bologna a fare il padre single di due piccoli pargoli che insieme non hanno nemmeno 3 anni.
Luca dorme nel suo lettino (e continuo a chiedermi da chi abbia preso il suo bel carattere angelico). Alice invece sta sveglia nel lettone, distesa accanto a me, e sorride e chiacchiera noncurante del suo non avere nemmeno 2 mesi di vita.
In questi giorni dopo la notizia della nascita di Alice ho ricevuto nuovamente tanti attestati di stima e di affetto che mi hanno riempito il cuore: perché so che i “miei” figli (che miei non sono ma che sono solo di loro stessi e del mondo, ed io mi limiterò ad accompagnarli e guidarli per un piccolo tratto del loro cammino) sono così tanto amati.
Un caro conoscente mi ha incontrato dal vivo, e abbracciandomi, commosso, mi ha ringraziato perché secondo lui io e mio marito con la nostra famiglia e le nostre scelte stiamo facendo tanto per la visibilità e i diritti delle persone omosessuali.
Ho risposto in modo schivo e ho ringraziato imbarazzato.
Perché vi confesso che non ho mai pensato preventivamente che la mia quotidianità potesse diventare un esempio oppure un baluardo di diritti e visibilità.
Io volevo soltanto avere una famiglia e, se fosse stato possibile, dei figli da amare, accudire, istruire, educare secondo le loro aspirazioni.
Io volevo solo essere felice.
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