Politica&diritti

Emmanuel e la donna trans: violenze figlie dello stesso odio

Emmanuel e Chinyery, aggrediti a Fermo

Una giornata di violenza contro soggetti considerati “fuori norma”: è questa la sintesi di ieri, mercoledì 6 luglio. Una data che da una parte sui media ha visto in primo piano l’aggressione, culminata in tragedia, di Emmanuel Chidi Namdi, morto per difendere la moglie dagli insulti di un estremista di destra; dall’altra, sui social network, è rimbalzata la foto di una persona transessuale in stato di incoscienza – a terra, vicino a una fermata dell’autobus – ripresa da un adolescente e data in pasto ai suoi amici su Facebook, alimentando commenti di odio e di disprezzo. Due fatti apparentemente diversi, tra loro, per le modalità con cui si sono svolti, per gli esiti e per l’attenzione riservata ad essi, ma che hanno molti punti in comune, a ben vedere.

Riguardo l’aggressione di Namdi, il copione è visto e rivisto: «Stava camminando con la ragazza quando due residenti del posto hanno iniziato a insultarla chiamandola “scimmia”. Emmanuel ha reagito, ha chiesto spiegazioni. Mossa che ha scatenato la violenza» si legge su Repubblica.it. L’aggressore, che non ha agito da solo per altro, «ha provato a difendersi spiegando di aver avuto l’impressione che Emmanuel e la moglie stessero rubando un’auto. Per evitare il furto è intervenuto insultando il nigeriano, che a quel punto avrebbe reagito» riporta ancora il quotidiano. Violenza linguistica, giustificata da pregiudizi diffusi, che si traduce in attacco fisico, in violazione dell’integrità dell’individuo. E che culmina in morte.

L’immagine della persona trans aggredita a Tor Sapienza

Per il caso della persona transessuale (di cui non sappiamo niente, neanche il nome) è successo invece che un ragazzo – presumibilmente minorenne – ha visto il suo corpo riverso, senza sensi, alla fermata dell’autobus come si evince dall’immagine. Ha una scarpa tolta, una evidente ferita alla testa. Buon senso vorrebbe che si chiamasse un’ambulanza e invece si scatta una foto e si ridicolizza quella fisicità violata. Se vogliamo, qui si scatena un processo contrario, ma uguale: l’aggressione c’è stata, ma diventa pretesto per il dileggio. “Il tranz”, viene definito da alcuni, detto anche “er biondo”, ripreso con l’epiteto “o schifoso biondo”, qualcuno si chiede «chi l’ha menato?» e la risposta non lascia spazio a fraintendimenti: «No o so chi l’ha menato ma chi l’ha menato lo stimo». In entrambi i casi, quindi, parole che feriscono e mani che picchiano e brutalizzano. Fino a uccidere il corpo o la dignità. La persona, in sintesi.

Soffermiamoci, inoltre, sui protagonisti di tali aggressioni. Amedeo Mancini, 38 anni, imprenditore agricolo e vicino all’estrema destra, è sospettato di aver provocato la morte del nigeriano. «Ci sono piccoli gruppi, di persone che si sentono di appartenere evidentemente alla razza ariana» ha commentato in conferenza stampa Vinicio Albanesi, il sacerdote che gestisce la comunità che ospitava i due migranti, rincarando: «Secondo me si tratta dello stesso giro che ha posto le bombe davanti alle nostre chiese! E se lo dico, significa che non è una semplice impressione». Figlio, apparentemente, di quella sub-cultura razzista che vede nello straniero il nemico e che trova, nel linguaggio di fascismi vecchi e nuovi, una valvola di sfogo della propria identità politica.

Alcuni commenti su Facebook all’aggressione della trans

Ragazzini di periferia, i secondi. Persone, evidentemente, con pochi strumenti culturali, primi tra tutti quelli che dovrebbero insegnar loro cos’è il rispetto per la vita umana. Gente che, in un futuro non poi così lontano (stiamo parlando di adolescenti), potrebbe essere il bacino elettorale potenziale di quei movimenti di estrema destra che tanta presa hanno laddove c’è degrado, povertà e miseria culturale, prima di ogni altra cosa.

In questa storia di orrori quotidiani – che ripaga con la morte il desiderio di una vita migliore da parte di due persone sfuggite dalle persecuzioni contro i cristiani in Nigeria e che riduce a fenomeno di baraccone da social l’identità di una persona perché transessuale – non si possono dimenticare le responsabilità del mondo istituzionale, che tanto peso hanno nella costruzione della narrazione contro le minoranze. Ricordiamo tutti e tutte gli insulti di Calderoli all’allora ministro Kyenge. Ricordiamo come venne gestita la cosa da quegli organi che dovevano vigilare e condannare e che invece chiusero un occhio. Ricordiamo le parole di Tavecchio sui “mangia banane” anche quelle impunite. Ricordiamo anche chi, come Salvini, fa sciacallaggio sull’accaduto (si veda l’immagine) trasformandolo in una conseguenza dell’immigrazione clandestina, quando invece è proprio un problema di cultura del rispetto. E ricordiamo come, sempre il mondo della politica, dello sport, della cultura e i media stessi trattano anche le minoranze sessuali, persone trans in primis, descritte come soggetti ai limiti della dignità umana.

Il commento di Salvini su Facebook

Non dobbiamo stupirci, poi, se questi sono i presupposti da cui partiamo per rappresentare quei soggetti che non rientrano in ciò che si reputa la normalità ovvero tutto ciò che è bianco, eterosessuale, possibilmente cristiano e magari preferibilmente maschile: a ben vedere, il pretesto al quale si sono agganciati gli aggressori di Fermo ha colpito, in primis, la moglie della vittima.

E fino a quando lasceremo che queste cose accadano, facendo spallucce a certi fenomeni, liquidando quella narrazione violenta e discriminatoria come incidente di percorso o come qualcosa di inevitabile, saremo complici. «E se vi siete detti non sta succedendo niente» cantava De Andrè «convinti che fosse un gioco, a cui avremmo giocato poco, provate pure a credevi assolti siete lo stesso coinvolti!». Ricordiamolo sempre.

 

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