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Unioni civili: la strada che rimane da fare (e come raccontarla)

Adesso che stiamo metabolizzando l’approvazione delle unioni civili da parte del nostro parlamento, al di là di come la si pensi su questa legge, e adesso che stiamo smaltendo la sbornia dell’entusiasmo per l’obiettivo raggiunto o l’amarezza della delusione per quello che manca, vorrei proporre alcune riflessioni sul pezzo di strada da fare per arrivare alla piena eguaglianza tra persone LGBT e resto della società: per arrivare, in altre parole, al matrimonio, al pieno riconoscimento della genitorialità in tutte le sue forme (dalla stepchild adoption all’adozione) e ad altre forme di tutela per la nostra comunità (penso ancora alla legge contro l’omofobia e a quella sul cambio anagrafico di genere).

Attivisti davanti a Montecitorio aspettano il voto sulle unioni civili (foto: Andrea Giuliano)

Il dibattito sulle unioni civili è stato viziato, a parer mio, da una serie di miti che sarebbe meglio sfatare, per dare maggiore consistenza all’agire politico. Innanzi tutto, dovremmo far uscire il discorso sulle nostre unioni dalla logica dell’emergenza e da quell’inevitabilità del “meglio poco che nulla”, se non vogliamo ulteriori mediazioni al ribasso. Come ho già detto altrove, la vita delle persone non va affrontata nell’ottica dell’eccezionalità, perché altrimenti continueranno a trattarci da “eccezione”. Il bicchiere non va visto mezzo pieno o mezzo vuoto, ma per quello che è: riempito a metà. E dire che va riempito tutto. Possibilmente al di fuori da situazioni di allarme di qualsivoglia natura, perché quando il palazzo brucia, salvi il salvabile e sacrifichi sempre qualcosa.

Secondo poi, la logica del passo alla volta può rappresentare una giustificazione da parte del potere politico per trasformare in dilazione perpetua ciò che non può e, soprattutto, non deve essere più rimandato. La parte vuota di quel bicchiere riempita a metà deve essere colmata tutta, come ho già scritto, ma anche in modo adeguato! È pur vero che goccia dopo goccia, si può arrivare all’obiettivo finale, ma è anche vero che dovremmo evitare quello che si configura come vero e proprio stillicidio. Dopo di che, rinunciare all’inevitabilità dei passaggi intermedi dovrebbe essere anche un ottimo approccio per recuperare la nostra dignità di persone integre.

È vero che in Francia, in Irlanda e nel Regno Unito si è fatto così, ma non è vero che un passaggio storico graduale debba diventare un automatismo: per ben capirci, all’inizio del ‘900 le donne non votavano, poi hanno cominciato a votare solo quelle sposate, poi tutte. All’indomani della caduta del fascismo, in Italia, il suffragio è stato allargato a tutte le persone maggiorenni, senza la logica del passo intermedio. E non venite a dirmi che c’era una cultura democratica forte che aveva già assorbito il cambiamento. In altre parole: quando mettiamo il modem, a casa, non passiamo da quello a 56k solo perché si è cominciato da lì. Di solito ci si rifà all’ultimo ritrovato disponibile, che per una curiosa coincidenza è anche quello più nuovo. Se la politica ha bisogno della gradualità ciò è, di conseguenza, indice di un ritardo culturale. Vogliamo superarlo, tale ritardo, o giustificarlo? Perché nella seconda ipotesi, è tutto a discapito nostro.

Supererei, infine, la retorica dell’amore che giustifica le nostre scelte e la nostra progettualità di vita. Sia ben chiaro: va benissimo che ci si innamori e che si decida di vivere insieme, nella prospettiva di creare una vita familiare (cosa che, se ci pensate bene, è stata stralciata dal ddl Cirinnà). Ma la giustezza delle nostre scelte non va dimostrata o giustificata dalla presenza di un sentimento. Non dobbiamo, in altre parole, dimostrare di essere degni/e di un istituto che regoli le nostre convivenze o, domani, del matrimonio. L’uguaglianza prevede la libertà di accesso a un istituto quali che siano le ragioni per cui vi si accede: che sia per affetto sincero, per interesse o altro, così come avviene per le persone eterosessuali, è nostra prerogativa poter accedere al matrimonio. E lo stato non deve concederlo, deve riconoscerlo.

Una mamma Agedo durante il presidio al Senato, a febbraio 2016 (foto: Andrea Giuliano)

Il dibattito politico, per come è stato condotto fino a ora, mi sembra sia stato strutturato su altre logiche (seppur con qualche lodevole eccezione). Ciò ha permesso ad un certo linguaggio politico di esprimersi nei modi che tutti sappiamo. Ovviamente perseguire una strada diversa non ci mette al riparo dalla stupidità degli individui, ma forse può aiutarci a metterla in risalto. E se possiamo ridicolizzare certe affermazioni, se si può ridere di esse, le depotenziamo di fatto. Credo che, almeno su questo, al di là di come ci si pone nello scacchiere politico attuale, si possa essere tutti e tutte abbastanza d’accordo.

(Foto sopra il titolo di Andrea Giuliano)

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