Da Google a Starbucks passando da Facebook e Airbnb. Le principali multinazionali statunitensi si stanno schierando tutte contro Trump e il decreto che vieta l’ingresso in Usa ai cittadini di sette paesi a maggioranza islamica, anche se in possesso di regolare visto o di carta verde. Sono le stesse aziende che, negli anni, si sono schierate ufficialmente a favore del matrimonio egualitario e dei diritti delle persone lgbt.
Google, invece, ha racconto 4 milioni di dollari metà dei quali arrivano dalle casse dell’azienda, mentre l’altra metà è stata raccolta tramite donazione dei dipendenti. I soldi saranno devoluti a American Civil Liberties Union, Immigrant Legal Resource Center, International Rescue Committee e Alto commissariato Onu per i rifugiati: tutte organizzazioni che si occupano di rifugiati.
Sempre a American Civil Liberties è arrivata anche la donazione di Lyft, concorrente di Uber, che ha devoluto 1 milione di dollari.
Uber, dal canto suo, ha garantito ai suoi autisti rimasti bloccati fuori dagli Usa, e alle loro famiglie, il supporto necessario per sopravvivere per tutto il tempo necessario (il decreto di Trump avrà efficacia per 90 giorni). Tutto pro bono, cioè gratuitamente. L’azienda ha parlato di centinaia di persone. Il CEO di Uber, Travis Kalanick, ha scritto una lettera ai suoi dipendenti in cui chiede di “prendere posizione per ciò che è giusto”. “Questo divieto colpisce molte persone innocenti – ha scritto Kalanick -: un problema che solleverò venerdì prossimo quando andrò a Washington per il meeting con il presidente Trump”.
“I miei nonni arrivarono dalla Germania, dall’Austria e dalla Polonia. I genitori di Priscilla (la moglie di Zuckerberg, ndr) erano rifugiati della Cina e del Vietnam. Gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati e dovremmo essere orgogliosi di questo – ha scritto in un post -. Dobbiamo tenere il nostro paese al sicuro (…) ma dobbiamo anche tenere le porte aperte ai rifugiati e a chi ha bisogno di aiuto. È ciò che siamo. Se avessimo rifiutato i rifugiati qualche decennio fa, la famiglia di Priscilla non sarebbe qui oggi”.
La catena di caffetterie Starbucks, invece, ha fatto sapere che partirà dagli Usa il suo piano di assumere 10.000 rifugiati nei 75 paesi in cui l’azienda opera. “Ci sono più di 65 milioni di cittadini del mondo riconosciuti come rifugiati dalle Nazioni unite – ha scritto il Ceo Howard Schultz – e noi stiamo definendo piani per assumerne 10.000 nei prossimi cinque anni nei 75 paesi del mondo dove è presente Starbucks. E inizieremo qui negli Stati Uniti, concentrandoci inizialmente su chi ha servito le truppe Usa come interpreti e personale di supporto nei diversi paesi dove il nostro esercito ha chiesto sostegno”.
Non è una coincidenza che le aziende che si stanno schierando dalla parte dei diritti dei rifugiati, qualunque sia il loro credo, siano le stesse che hanno rivolto appelli, lanciato campagne e raccolto fondi per il matrimonio egualitario. E lo si capisce rileggendo le dichiarazioni che fecero all’epoca in cui esaltavano la diversità come una ricchezza per l’economia statunitense e spiegavano come luoghi di lavoro inclusivi siano determinanti per avere lavoratori sereni e felici di lavorare in quelle aziende.
Esattamente come il razzismo e l’omofobia viaggiano sullo stesso binario, l’inclusione e l’accoglienza sono ispirate dagli stessi principi.
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