Giulia (nome di fantasia) è una studentessa. Da grande vuole fare l’assistente sociale. Tre anni e mezzo fa ha iniziato il suo percorso di transizione per adeguare il suo corpo alla persona che sente di essere. Per diventare Giulia a tutti gli effetti, insomma. All’università ha il doppio libretto. Cioè ha anche quello con il nome scelto. Così, quando, i professori la chiamano per gli esami, non è costretta a rivelare a tutti la sua transizione. Cosa che, però, deve fare ogni volta che le viene chiesto un documento di identità, in qualsiasi altra circostanza. Per questo e per essere riconosciuta come Giulia anche dallo Stato, due anni fa ha fatto richiesta del cambio anagrafico al tribunale della sua città.
Ma quello che lascia perplessi sono le motivazioni addotte dal giudice che arriva a scrivere che “la “disforia di genere”, che si rifà alla teoria del “gender”, secondo la quale non esiste una diversità sessuale biologica “ma soltanto soggettiva e culturale”. Cosa ci fa la “teoria del gender” nelle motivazioni di un dispositivo di un tribunale? Citata, per altro, a sproposito, dato che la disforia di genere non ha niente a che fare con la cosiddetta “teoria gender”, ma è codificata dal DSM. È bastata una banale ricerca su Google per scoprire che quella che il giudice usa come fonte giuridica altro non è che il sito “sì alla famiglia“. All’indomani della sentenza, il sito in questione, (una delle tante voci del fronte “no gender”) pubblicò un commento scritto dal’avvocato Stefano Nitoglia, componente del Consiglio di segreteria del Centro studi Rosario Livatino (anch’esso riconducibile alla stessa area politica).
In sostanza, una trans (nel caso in specie) che va in spiaggia in bikini rischia di creare imbarazzo se non turbamenti negli altri bagnanti, se dal suo costume si intuisse che ha un pene. Chissà se lo stesso vale per le persone che transitano verso il genere femminile e se in quel caso i bagnanti misurerebbero il rigonfiamento dello slip, viene da chiedersi. Insomma, è come se si chiedesse alle persone trans di operarsi a seconda di dove vogliono andare. Vuoi andare in palestra ed usare gli spogliatoi comuni? Allora devi operarti perché gli altri utenti potrebbero turbarsi. Se, invece, intendi fare vita privata o andare in giro sempre con adeguata copertura, allora (forse!) se ne può discutere. Un principio fallace, oltre che sul piano del buon senso, anche su quello giuridico perché non tiene conto della diritto alla pari dignità dell’individuo, ma numericamente di maggioranze e minoranze.
“Quattro mesi d’inferno” dice Giulia a Gaypost.it: “Il punto è che noi non possiamo congelare la nostra vita – continua –. Non posso andare in criostasi, nel mentre. Gli anni passano e vorrei potermi laureare, vorrei poter trovare un lavoro ed iniziare a costruire il mio futuro. Vorrei poter vivere la mia vita quotidiana – spiega – senza dovermi calare le mutande ogni volta che qualcuno mi chiede i documenti: che sia in banca o in posta, che sia sul treno o sull’autobus. Basta pensarci, quante situazioni di vita quotidiana ci richiedono di mostrare il nostro ID?“. Perché sebbene le sentenze di Corte Costituzionale e Cassazione abbiano aperto la strada alle tante persone trans che in questi due anni hanno potuto cambiare genere anagrafico senza operarsi, di fatto lasciano discrezionalità al giudice che si trova a decidere. Si tratta di sentenza, infatti, non di leggi. E la legge 164 del 1982, l’unica che affronta il tema della transessualità, impone la mutilazione dei genitali.
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