È di mercoledì scorso la notizia dell’ordinanza di Lecco con la quale il giudice ha inibito al Sindaco del Comune di Lecco di annullare l’annotazione anagrafica del cognome comune scelto da due donne unite civilmente, trasmesso peraltro anche alla bambina nata dopo la celebrazione dell’unione.
A norma di legge sulle unioni civili è prevista per le parti dell’unione civile la possibilità di adottare un cognome comune. Il comma 10 dell’art. 1 infatti recita così: “Mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile”.
Nell’idea di chi ha scritto il testo della legge Cirinnà c’è (anzi, ormai bisognerebbe dire c’era) l’evidente volontà di replicare la disciplina prevista nel modello tedesco della Lebenspartnerschaft, che lascia alle parti la libertà della scelta del cognome.
I decreti attuativi però disattendono questa interpretazione del comma 10 e fanno una scelta per certi versi assolutamente incomprensibile.
Infatti ai sensi dell’art.1 (comma 1, lett. m, n. 1, sub f, capo v. g-sexies) del D.Lgs. n.5/2017 si precisa che la scelta del cognome comune “non incide sui dati personali delle parti”. Questa interpretazione è in netto contrasto con quanto previsto nel cd. “decreto-ponte” e con quella che sembrava essere la lettura del comma 10 della legge – facendo degradare il cognome aggiunto scelto dalle parti dell’unione civile a semplice “cognome d’uso”. Il legislatore si spinge oltre: nell’articolo 8 del medesimo decreto, infatti, prevede addirittura l’annullamento delle modifiche anagrafiche effettuate per le unioni civili celebrate quando era in vigore il decreto ponte, operato d’ufficio dalle anagrafi civili e senza possibilità di contraddittorio.
Il successivo decreto attuativo, invece, avrebbe voluto cancellare tale diritto soggettivo in maniera illegittima, in quanto contrasta con il diritto alla identità personale (anche del minore) sancito da fonti di diritto europeo. Il Tribunale di Lecco ha quindi riconosciuto il diritto a mantenere il cognome scelto, ritenendo che “l’avvicendamento di norme ha senz’altro prodotto nella fattispecie in esame una lesione della dignità della persona e dell’interesse supremo del minore, che trovano tutela nei sopra richiamati principi fondamentali dell’Unione europea”.
L’ordinanza del Tribunale di Lecco non ha sollevato l’obiezione di legittimità costituzionale, ma si è limitato a risolvere la problematica alla luce del diritto all’identità personale in una visione orientata ai principi dell’Unione Europea.
Sicuramente altri Tribunali, in cui sono pendenti ricorsi analoghi, a breve prenderanno delle decisioni e dunque forse sarebbe opportuno un urgente intervento legislativo (o dell’esecutivo che ne ha il potere) per risolvere questa evidente problematica.
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