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Gestazione per altri: le offese non sono opinioni e chi le legittima ne è complice

Qualche giorno fa sbirciando sui profili social di K. (la straordinaria donna che ha portato avanti la gravidanza di Luca e Alice e che ormai fa parte della nostra famiglia insieme a suo marito, sua figlia e i suoi genitori) ho letto un suo bellissimo messaggio che parlava di noi.

K. raccontava ai suoi amici e alle sue amiche che far nascere Luca e Alice è stata (ed è) per lei una delle cose più gratificanti ed uno dei più grandi traguardi della sua vita, perché ha aiutato a far crescere una famiglia (la nostra appunto). Concludeva spiegando che noi quattro siamo diventati come una seconda famiglia per lei e i suoi cari.

La mia gratitudine nei suoi confronti per il regalo straordinario che ha fatto alla nostra famiglia è infinita. E parlo di regalo a ragion veduta. Perché non ci sono contratti o compensi o burocrazia che possano avere alcun senso quando parliamo del dono della vita.

Gli attacchi a K. e alle altre donne portatrici

E’ dunque a lei che penso (e mi incazzo) tutte le volte che leggo gli attacchi di quelle poche donne e pochi uomini (che si fanno chiamare RUA, resistenza all’utero in affitto, e già il nome la dice lunga) a quelle donne straordinarie che liberamente hanno scelto di aiutare un’altra famiglia a realizzare il suo progetto di genitorialità. Per i resistenti, queste donne non possono che essere o bisognose di soldi o malate o comunque disturbate, e dunque non in grado di autodeterminarsi, e deve essere loro impedito di portare avanti una gestazione per altri.
Per la serie: l’utero è tuo ma te lo gestisce RUA.

Gli insulti ai bambini

E penso anche a Luca e Alice, volgarmente definiti troppo spesso da queste persone come oggetti acquistati tramite un contratto: penso a quando saranno in grado di accedere a internet e leggeranno queste offese, questi insulti, questa barbarie.

Quello che accade in questi giorni a Milano in occasione del Pride mi addolora profondamente: come attivista lgbt, come padre e come femminista.

La scelta operata dal Coordinamento Arcobaleno del Milano Pride di inserire all’interno della Pride Week un evento organizzato da chi si batte in modo volgare e violento contro la GPA e di renderlo un appuntamento ufficiale con tanto di logo è, a mio avviso, sbagliata e gravissima.
Perché essere inclusivi è un conto, dare spazio e fare da megafono a chi attacca con violenza e offende le scelte e le vite degli altri e le loro famiglie (e i loro bambini) è un altro.

Il “reato universale”

Quando parliamo di Daniela Danna, infatti, parliamo di un’esponente del mondo lesbico milanese sostenuta nelle sue tesi da un gruppetto di persone che lo scorso anno al Pride di Milano è andato davanti al trenino delle famiglie arcobaleno, pieno di bambini, con un cartello con scritto “Vendola comprola”.
E parliamo di un gruppo di persone che vuole applicare la categoria di “reato universale” e mandare in galera quei genitori che sono riusciti a coronare il loro progetto di genitorialità attraverso la gestazione per altri all’estero.

Nessuna censura, ma le offese non sono opinioni

Lungi da me operare una censura a priori delle opinioni diverse dalla mia, e ben venga chi la pensa diversamente sulla gestazione per altri e usa modalità, toni e linguaggio rispettosi delle parti coinvolte (e in particolare dei bambini e delle donne che decidono di portare avanti una gravidanza per altri).

Non può invece esserci un confronto fra diverse posizioni (o fare finta che si tratti solo di questo) se alla base, da una parte, mancano perfino i rudimenti del rispetto e i padri che sono ricorsi alla GPA vengono additati come “compratori di bambini” o “schiavisti sfruttatori di donne incapaci di intendere e di volere”.

Le offese e le aggressioni gratuite non possono e non devono essere spacciate per opinioni, e chi le legittima se ne rende complice.

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