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Quando l’assistente sociale combatte l’omofobia

La lotta ai pregiudizi e allo stigma contro le persone Lgbt? Non è e non deve essere solo missione politica e culturale, ma deve divenire un elemento al servizio di varie professionalità. Tra queste, c’è il ruolo chiave della figura dell’assistente sociale. È quanto emerge nel libro, di recente pubblicazione, di Benedetto Madonia intitolato Orientamento sessuale e identità di genere – Nuove sfide per il servizio sociale (Erickson, 2018). Gaypost.it ha contattato l’autore che ci ha rilasciato questa intervista.

Il tuo libro si rivolge ad una categoria ristretta: quella degli assistenti sociali. Come mai hai voluto concentrare il focus proprio su di essa?

La professione dell’assistente sociale si fonda su un ideale: quello della giustizia sociale. I bisogni e le istanze delle persone Lgbt rientrano a pieno titolo tra le istanze di riconoscimento e i diritti di cittadinanza: ne consegue che le dimensioni dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere devono assumere rilevanza per il servizio sociale. È un dovere deontologico sviluppare una riflessione critica, essere culturalmente competenti e promuovere prassi professionali inclusive e non oppressive. Come scrivo nel libro, non si tratta di creare una nuova “categoria” di utenti ma di prendere consapevolezza che le dinamiche che producono stigmatizzazione, oppressione e che si traducono poi in atteggiamenti e atti omofobici hanno una matrice culturale e strutturale della quale bisogna tener conto.

In che modo, concretamente, il servizio sociale può aiutare a superare lo stigma derivato dall’omo-transfobia?

Penso che un primo passo sia quello di prendere consapevolezza dei pregiudizi e degli stereotipi di cui ciascuno/a può essere portatore. È necessario partire da una “alfabetizzazione” sulle tematiche Lgbt, informarsi e formarsi poiché nella relazione d’aiuto ogni atteggiamento, espressione verbale o non verbale, il non detto, può aggiungere ulteriore sofferenza e stress emotivo a chi sente già di far parte di una minoranza. Bisogna promuovere, nel lavoro di ogni giorno, una pratica professionale affermativa e anti oppressiva.

E l’operatore sociale?

L’operatore sociale non solo deve aver un atteggiamento non giudicante ma bisogna che affermi l’identità della persona, comunicando accettazione e accoglienza, sostenendola nel suo percorso personale di autodeterminazione. Realizzare una pratica anti-oppressiva, poi, significa diventare culturalmente competenti ed essere consapevoli che corriamo il rischio di perpetuare oppressione ed esclusione nei confronti di popolazioni che sono già oggetto di stigma e misconoscimento.

Nel tuo libro parli anche della possibilità di costruire una nuova idea di maschile. Cosa intendi?

Siamo cresciuti con una marcata dicotomia tra cosa sia “essere maschi” e cosa sia “essere femmine”. Giochi da maschietti, comportamenti da femminucce, cose che può fare un maschio e cosa che non può fare una femmina. Penso che faccia un gran bene a tutti/e mettere in discussione questa polarizzazione dei generi che, a mio avviso, ha prodotto una concezione del maschile che coincide con virilità, dominanza ed egemonia. Esiste una stretta correlazione tra la concezione attuale della maschilità e le violenza di genere, i femminicidi e l’omo-transfobia. Bisogna educare ad una nuova idea di maschile che faccia proprie quelle dimensioni che purtroppo si credono essere “naturalmente” femminili: empatia, accoglienza, il prendersi cura, la capacità di emozionarsi.

Qual è lo stato del servizio sociale in Italia riguardo le tematiche Lgbt?

L’autore del libro, Benedetto Madonia

Come dicevo inizialmente, a differenza del social work di altri Paesi (quello del Regno Unito e statunitense ad esempio), in Italia non si è ancora sviluppata una riflessione critica per lo sviluppo di buone prassi nella relazione d’aiuto con la popolazione Lgbt. Eppure rispetto al silenzio degli altri anni qualcosa sembra stia cambiando. Già in occasione della giornata contro l’omofobia del 2014 il Cnoas ha emesso un comunicato stampa di condanna dell’omofobia; in diverse occasioni, gli ordini professionali regionali hanno fornito il patrocinio ai pride e si stanno organizzando seminari ed eventi formativi. In diversi corsi di laurea universitari si stanno introducendo materie di studio vicine ai gender e women studies.

Qual è la storia che più ti ha colpito tra quelle che fanno parte della tua esperienza professionale e di vita?

Mi viene in mente un caso che ho seguito recentemente. Si tratta di una donna ormai ultrasessantenne con una storia alle spalle di marginalità, detenzione carceraria e violenza a causa della sua transessualità. Un passato segnato da un’enorme sofferenza, costretta per anni dallo Stato Italiano al confino (erano gli anni ’70) per reati “contro la morale”. Oggi questa persona ha gravi problemi di salute e di sussistenza economica. La sua storia, la sua forte personalità, la sua resilienza mi hanno commosso. Bisogna che ciascuno/a di noi oggi prenda posizione. Non è ammessa l’indifferenza. Mi viene in mente uno slogan degli anni ’70: “Se scegli di rimanere neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto la parte dell’oppressore”. Tu da che parte stai?

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